Pubblichiamo un articolo di Affari Internazionali
A distanza di un anno dalla Conferenza di Ginevra sulla Siria del giugno 2012, si riaffaccia l’ipotesi di mettere intorno a un tavolo le parti in conflitto ed avviare l’attuazione del cosiddetto Piano Annan. Nel frattempo lo stesso Annan, preso atto che il cruciale avvallo del Consiglio di sicurezza (Cds) sarebbe venuto a mancare, si è dimesso e l’incarico è passato a Lakdar Brahimi.
Il numero di vittime è intanto drammaticamente salito ad oltre 80.000, quello dei rifugiati a 1,5 milioni e dei profughi interni ad oltre 4 milioni: una vera catastrofe umanitaria. Mentre le forze lealiste hanno sostanzialmente mantenuto la capacità di contrasto e le diserzioni dall’esercito non si sono verificate se non sporadicamente e Hezbollah è entrato in campo al fianco dei lealisti.
Sul fronte opposto, sono massicciamente presenti nuovi combattenti stranieri, più o meno affiliati alla galassia di Al-Qaeda. Da ultimo, si è aggiunto l’inquietante sospetto sull’uso di armi chimiche. Per molto meno, a suo tempo l’Occidente intervenne a sostegno del Kosovo contro la Serbia.
Circolo vizioso
Contro ogni mal riposta aspettativa, risulta oggi chiaro che il massacro in corso non condurrà alla fine del conflitto ma ad ulteriori massacri. E al rischio di frantumazione del paese per linee etniche, settarie, confessionali. Una terra di nessuno, sottratta ai siriani, e preda di una spietata concorrenza tra le diverse influenze regionali e internazionali.
Con effetto di trascinamento nel conflitto dei paesi confinanti più vulnerabili, a partire dal Libano. Si intersecano nella crisi vecchie e nuove ambizioni di dominio dell’area, l’atavico contrasto tra sunniti e sciiti, l’inquietudine di Israele per l’incalzare dell’Iran e dell’arco di alleanze sciite, e i timori di tutti per il diffondersi dell’estremismo islamista e del terrorismo.
È sullo sfondo di questo scenario che si è materializzata l’intesa tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov. Che apre la strada ad una “Ginevra 2”. Tutti dicono di volerla. Tutti si appellano alla fine dei combattimenti e a una soluzione politica. Ma subito emergono i contrasti: chi invitare? E con quale agenda?
Quali gli interessi in causa, al di là delle considerazioni umanitarie? La Russia, che da sempre considera gli Amici della Siria inquinati da un approccio pregiudiziale, preme per una agenda “aperta” che non scarti a priori il regime, e per un “equilibrio” dei partecipanti che riconosca il ruolo dell’Iran nella soluzione della crisi.
Se per Mosca è essenziale mantenere il processo nei binari della “legalità” per non creare precedenti di sovversioni pilotate o monopolizzate dall’esterno, lo è ancor di più contrastare l’avanzata di correnti islamiste alla luce dei noti problemi nel proprio territorio; e, al contempo, preservare la presenza nel Mediterraneo che Assad ha garantito a Tartus e, più in generale, accreditare un proprio status di potenza internazionale. Nella sua perseveranza Mosca ha guadagnato molti punti alle proprie posizioni (…)
Il ruolo dell’Iran
L’Iran, infine. Capofila dell’arco sciita che ha il suo terminale negli Hezbollah libanesi, militarmente attivo a fianco del regime siriano, Teheran è la preoccupazione prioritaria di tutto il vicinato, ed oltre. Introduce nel conflitto, esasperandolo, il contrasto storico tra sciiti e sunniti, ma soprattutto un potenziale dirompente nella competizione sulle sfere di influenza, non domato dalle pur incalzanti sanzioni imposte dall’Occidente.
Se Israele muove per tre volte in profondità nel territorio siriano, non è solo per bloccare i trasferimenti di armi lealiste a Hezbollah, ma per segnalare la propria “linea rossa” in ordine al potenziale bellico, nucleare, e in definitiva politico, iraniano. In qualche modo, in questa crisi, la chiave di volta è l’Iran.
Laura Mirachian è rappresentante dell’Italia all’Onu a Ginevra.