Dopo 11 anni la Turchia si ribella al potere di Recep Tayyip Erdogan. Le ultime virate islamiche del governo hanno aumentato lo scontento e quella che è iniziata come una manifestazione di taglio ambientalista in difesa del parco Gezi, è diventata una rivolta contro linee politiche non più “islamico-moderate”. Si contano i morti e la situazione sembra peggiorare.
Tra una barricata e l’altra, in un’intervista per Formiche.net, Carlo Frappi, ricercatore del programma Caucaso ed Asia Centrale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) ha spiegato da Istanbul qual è la natura, quali sono gli obiettivi e gli effetti delle manifestazioni in Turchia. Un movimento variegato, senza una leadership riconoscibile, che protesta contro l’involuzione autoritaria di un governo che, non bisogna dimenticare, ha dato un’importante spinta economica al paese. Secondo Frappi, non siamo di fronte a una Primavera turca e le novità che risulteranno da questi avvenimenti si potranno intravedere solo all’interno del partito Akp.
Siamo di fronte ad una “Primavera turca”? Quale scontento emerge da queste manifestazioni?
Seppur socialmente e politicamente molto rilevanti, gli eventi di Istanbul non hanno nulla a che vedere con il fenomeno delle cosiddette Primavere arabe. Profondamente diverse sono le cause, la portata e, non secondariamente, gli obiettivi della protesta. Ad Istanbul si assiste ad un movimento variegato e marcatamente spontaneo che nasce in ragione dell’involuzione autoritaria e personalistica di un governo, quello dell’Akp, che – non va dimenticato – ha assicurato al Paese un decennio di sostenuta crescita economica e un processo di riforma politico-istituzionale la cui profondità e rilevanza storica non possono essere cancellate dal rallentamento registratosi nel corso degli ultimi anni.
Sembra che in piazza ci siano diverse anime: ultra-laici, nazionalisti ma anche curdi. Chi sono i veri leader della protesta e quali sono le motivazioni?
Rovescio della medaglia dello spontaneismo movimentista che ha caratterizzato i giorni di protesta turche è che dalla indistinta galassia socio-politica che porta avanti la protesta non è emersa una leadership riconoscibile e legittima, una leadership in grado di rappresentane le variegate – se non vaghe – istanze, ponendosi come interlocutore credibile per le Istituzioni e la politica turca. Nella perdurante mancanza di canali di dialogo tra piazza e Palazzo risiede non a caso il principale limite del movimento.
Alcuni manifestanti hanno detto che la protesta è anche contro la politica estera di Erdogan e che la Turchia non vuole l’intervento militare in Siria. Che ruolo ha la guerra nel paese vicino in queste manifestazioni?
Questo tipo di dichiarazioni dimostra meglio di qualunque analisi la perdurante vaghezza dei contenuti della protesta. Nonostante gli errori compiuti dal governo Erdogan nella gestione della crisi siriana, gli avvenimenti d’oltre confine o la gestione delle ricadute interne del conflitto non sono mai entrati a far parte – se non, evidentemente, in via del tutto marginale – delle accuse rivolte dai manifestanti al governo.
C’è la possibilità che da queste proteste si produca una nuova corrente politica?
Al momento sembra difficile, tanto per la richiamata incapacità del movimento di riconoscersi in una piattaforma comune e in una leadership riconoscibile, tanto per l’apparente impossibilità per i tradizionali partiti politici turchi – con il Partito repubblicano del popolo in testa – di rappresentare appieno le istanze oggi provenienti dalla piazza. Se una novità può intravedersi, la si potrebbe scorgere solo all’interno dello stesso partito di governo.
In un articolo ripreso dal Corriere della Sera, un manifestante ha detto che se la Turchia diventa un nuovo Iran è colpa dell’Europa, per non avere permesso l’ingresso del paese nell’Unione. Questo è vero?
Non sono d’accordo. Volendo estremizzare, si potrebbe al contrario dire che la sponda di legittimazione politica offerta all’Akp dal negoziato con l’Ue abbia, piuttosto, permesso al partito di governo di attuare quelle riforme che, scardinando gli assetti di potere precostituiti, hanno permesso alla Turchia di imboccare un nuovo percorso politico, sociale, culturale e istituzionale. percorso che, evidentemente, nulla ha a che vedere con l’Iran.
Cosa si deve aspettare il mondo nei prossimi giorni dalla Turchia? Ci sarà un’ulteriore repressione da parte del governo di Erdogan o tornerà la calma?
Impossibile dirlo ad oggi. L’estrema complessità e fluidità della situazione lega gli sviluppi a venire all’azione e alle posizioni di troppi attori – dalla galassia dei manifestanti ai partiti d’opposizione, passando per un Akp che non è necessariamente detto rappresenti un blocco monolitico – i cui interessi e le cui strategie sono tutt’altro che definite.