Skip to main content

Brics, Emergenti e Ue. Chi esce rafforzato dalla crisi?

Europa sempre meno rilevante, Usa in ripresa e boom degli Emergenti. Lo scenario mondiale dei prossimi anni sarà questo. E non solo a livello economico. A spiegare la nuova rotta post-crisi è stato il convegno “Quo vadis? World, Europe, Italy”, svoltosi a Roma giovedì 6 e venerdì 7 giugno, organizzato dal centro Studi Economia Reale e dall’Istituto Luigi Sturzo. Un dibattito in cui si è andati oltre le colpe dell’austerità in Europa e ci si è concentrati sulle sfide che dovrà affrontare il sistema economico-politico mondiale nei prossimi anni.

La ripresa post-crisi

“Gli Emergenti crescono ma la loro competitività sarà erosa dall’aumento dei costi del lavoro nel settore manifatturiero”, ha spiegato Emilio Rossi di Oxford Economics. “La crescita globale resterà debole almeno fino al 2014, anche se lo scenario sembra essere più positivo negli Stati Uniti, che tra il 2013 e il 2017 riprenderanno a crescere come o forse poco più del periodo precrisi. Non a caso, gli Usa rappresentano l’unica area dell’Occidente ad essere tornata ai livelli di produzione manifatturiera precedenti alla crisi. L’Eurozona? Ancora impantanata nella crisi, mentre il Giappone si è lanciato in un vasto ed aggressivo esperimento di politica monetaria“.

I rischi? Oltre alla possibilità di una dissoluzione dell’eurozona, secondo Rossi c’è da considerare il “trasferimento della ricchezza dai Paese Ocse a quelli in via di sviluppo, correlato all’adozione di politiche monetarie aggressive che potrebbero scatenare guerre commerciali“. Una colonna fondamentale dello sviluppo mondiale nei prossimi anni secondo Rossi resterà la tecnologia, che bisognerà rendere fruibile non solo in determinate aree del mondo. E l’altra sfida importante sarà quella del cambiamento climatico.

L’ascesa economico-politica dei Brics

Ma il ruolo crescente degli Emergenti è stato sottolineato anche da Paul van den Noord dell’Oecd, secondo cui “il Pil dei Brics entro il 2030 sarà uguale a quello dei Paesi Oecd”. “Anche grazie ad un aumento del tasso di produttività dei paesi in via di sviluppo più veloce di quello degli avanzati, entro il 2020 il G7 includerà tutti i quattro Brics, (Brasile, Russia, India e Cina) con uno spostamento non solo del potere economico, ma anche di quello politico”, ha spiegato invece Carlo Cottarelli, direttore del Fiscal Affairs Department del Fondo monetario internazionale..

Un aspetto di criticità resta quello della “trasparenza finanziaria”, specialmente riguardo gli Emergenti. L’esempio? Secondo Cottarelli è la Cina, per cui alla comunità internazionale non vengono forniti dati di bilancio, su debito e deficit, che restano quindi un mistero.

Gli investimenti del futuro

Ma dove saranno gli investimenti diretti gli investimenti del futuro? “Entro il 2030, 60 centesimi per ogni dollaro, in aumento rispetto ai 45 di oggi, saranno investiti negli Emergenti, dando vita ad un doppio sistema finanziario equamente distribuito tra Avanzati ed Emergenti”, ha evidenziato Maurizio Bussolo della Banca Mondiale.

“I risparmi mondiali – ha proseguito – saranno sufficienti a garantire un adeguato flusso d’investimenti senza causare un eccesso dei tassi d’interesse. Ma mentre l’iniquità nel mondo si ridurrà, il trend potrebbe essere diverso all’interno degli Stati stessi”, ha concluso.

Le prospettive Usa

L’economista Dominick Salvatore, della Fordham University di New York, ha invece sostenuto come negli Usa l’amministrazione Obama abbia fatto il necessario per affrontare una crisi che gli economisti comunque non sono riusciti a prevedere. Le ragioni della crisi finanziaria? “La scarsa applicazione della scarsa regolamentazione in materia”. A pesare oggi sugli Stati Uniti “sono il dollaro sopravvalutato, l’incertezza nella tassazione, l’alto costo dell’assicurazione sanitaria e l’eccessiva tassazione sui profitti esteri”, un argomento tornato alle cronache con il caso Apple, accusata di non rimpatriare i capitali detenuti in Irlanda. Problemi tradizionalmente europei, come quelli del “basso numero di nuove imprese avviate e della scarsa mobilità lavorativa, che rischiano di far diventare gli Usa sempre più come l’Ue”.



×

Iscriviti alla newsletter