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Cari Letta e Bonanni, se volete meno tasse non fingete sulla spending review

I commercianti non vogliono l’aumento dell’Iva, gli artigiani chiedono di ridurre il cuneo fiscale, gli industriali mettono nel paniere anche l’Irpeg, i sindacati rivendicano un alleggerimento della tassazione sul lavoro dipendente, e Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, ha chiesto addirittura “un choc fiscale” positivo. Chi ha un reddito fisso e basso sogna che vengano abbassate le aliquote. I rentiers non vogliono né l’Imu né una qualsiasi patrimoniale sui beni mobili e immobili. Una cacofonia sociale impossibile da trasformare in armonia. Non ci sono riusciti neppure governi forti figuriamoci un governo a tempo.

Il focus di Letta sulla detassazione del lavoro

La Bce ha appena promosso l’Italia tra i paesi “virtuosi”, ma avverte che non si può superare un disavanzo pubblico del 3%. Dunque, non c’è spazio, a meno che non si faccia un gioco a somma zero: se qualcuno prende, qualcun altro deve dare. E’ a questo modello che s’ispira Enrico Letta quando sostiene che l’aumento dell’Iva è inevitabile se si vuole concentrare sul lavoro ogni sgravio possibile.

II flop della spending review fino ad oggi

Nessuno ha ricordato che qualche spazio maggiore, tenendo ferma l’asticella del bilancio a meno 3 per cento, si può trovare dal lato delle spese. Chiedere un abbattimento brusco e massiccio è irrealistico perché farebbe crollare la domanda interna aggravando la resezione. Tuttavia, c’è aria di rinuncia a priori. Si evoca la spending review che però finora non ha dato molto e rischia di deludere del tutto le grandi aspettative. Peccato, perché spazi ci sono e non sono affatto recessivi.

I costi di produzione dei servizi pubblici

Su 600 miliardi di spesa corrente al netto degli interessi, scrive la relazione Giarda, le pensioni rappresentano il 33%, i trasferimenti alle famiglie il 9,8% quelli alle imprese il 4% (sono poco meno di 19 miliardi, tutto compreso, cioè anche alle aziende pubbliche come le ferrovie). Il 45,3% è fatto dai costi di produzione dei servizi pubblici (scuola, sanità, difesa, giustizia, polizia, ecc.). Ebbene, essi sono aumentati molto più dei costi dei beni privati. L’Istat ha fato anche una stima: se dal 1980 la dinamica dei costi pubblici e privati fosse stata la stessa, lo Stato avrebbe risparmiato ben 73 miliardi di euro.

L’inflazione dei costi pubblici e i tagli lineari

Altro che appannaggio dei parlamentari. Altro che casta. Questo è il formaggio nel quale si annidano i topi, grandi e piccoli. Qui è stato costruito un sistema assistenziale sul quale si è costruito il consenso, quello politico e quello sociale. Nessun governo ha avuto il coraggio di metter mano a questa inflazione dei costi pubblici. Ogni finanziaria ha sempre dato per scontata la spesa storica. Il primo ad aver interrotto la sequenza è stato Giulio Tremonti con i tagli lineari che gli sono costati la testa.

La posizione dei sindacati

Ebbene, lo choc fiscale del quale parla Bonanni non sarebbe solo uno slogan se venisse accompagnato da uno choc pari e contrario volto a bloccare la scala mobile perversa del Leviatano. E’ d’accordo la Cisl che proprio nell’impiego pubblico trova i suoi consensi maggiori? Ma non s’è mai levata una voce nemmeno nei sindacati “operaisti” come la Fiom. Non parliamo dei commercianti che hanno raddoppiato i prezzi con l’introduzione dell’euro e adesso sognano la lira per lucrare ancora sull’inflazione come hanno sempre fatto. Il salto del debito è avvenuto proprio così e il 1980 non è un punto di riferimento scelto a caso. Lo ricorda in modo chiarissimo Vincenzo Visco sul Sole 24 Ore, anche a chi attacca l’austerità tedesca per non uscire dalla poltiglia italiana. La festa è finita. Non c’è più trippa per gatti né formaggio per topi.



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