Quella siriana è una rivoluzione, non un rivolta, di poveri contro ricchi, che si è voluta gestire con gli strumenti del multilateralismo, mentre altri attori – la Siria, la Russia, l’Iran ed Hezbollah – agivano in modo unilaterale. Ora si è alla vigilia del disastro.
A colloquio con Formiche.net, Carlo Panella, scrittore e giornalista, collaboratore tra gli altri del Foglio e di Libero, ha tracciato gli scenari del conflitto siriano dopo la conferma statunitense dell’uso di armi chimiche fatto dall’esercito di Damasco contro i ribelli che combattono per rovesciare Bashar al Assad e la decisione di Washington di fornire maggiore assistenza sia politica sia militare all’opposizione.
L’annuncio di sostegno militare statunitense è stato interpretato come la decisione di armare i ribelli. Come cambierà la situazione in Siria? Non c’è il rischio che le armi finiscano in mano alle fazioni islamiste dell’opposizione?
I destinatari delle armi saranno i membri dell’Esercito libero siriano e i gruppi che hanno i propri santuari in Giordania, già sotto controllo dei servizi e quindi sicuri. Il vero problema è che si è voluto aspettare troppo. La politica attendista di Barack Obama è la prima responsabile dell’emergere dei gruppi islamisti.
La Siria è un Paese unico. Dalle prime fasi del conflitto sono presenti nelle file dell’opposizione migliaia di militari. Se questa decisione fosse stata presa un anno fa sarebbe stato sufficiente fornire loro anche pochi autoblindo. Non c’è mai stata necessità di un intervento esterno. Il problema sono stati i comportamenti attendisti di Usa e Unione europea.
Agli autoblindo si sono sostituiti i kamikaze. Gli islamisti sono impegnati in battaglia e la cosa più grave è che sono riusciti a conquistarsi consenso e rispetto. Se in alcuni quartieri di Aleppo e Homs la popolazione riesce ad andare a prende l’acqua, a fare la fila per il pane o altre attività quotidiane è perché a presidiare la sicurezza ci sono gli uomini del Fronte al Nusra, il più forte tra i gruppi islamisti.
Si è fatto troppo poco e troppo tardi. Il paragone con la Libia è agghiacciante. Anche lì all’inizio i morti civili furono poche centinaia, sebbene i numeri furono gonfiati dai servizi di al Jazeera. Dietro c’era l’emiro al Thani e il Qatar oggi può influenzare sia il governo sia i militari libici. In Siria la politica è stata invece attendista. Lo stesso Bill Clinton ha definito Obama un pazzo per le sue esitazioni.
Da cosa dipende l’atteggiamento russo. Perché continua a difendere la Siria?
Il ruolo della Russia è fondamentale. Cito sempre un’intervista di Assad a Repubblica del 2010. In quell’occasione spiegò che gli equilibri in Medio Oriente sono ancora quelli definiti durante la Guerra Fredda. La Russia difende l’eredità della vecchia Unione sovietica. Difende i propri interessi nei porti di Latakia e Tartus, gli unici che ha sul Mediterraneo. È da idioti pensare che possa dare il proprio assenso in sede Onu.
Durante la crisi libica l’intervento fu possibile per l’astensione russa decisa da Medvedev, allora presidente. Ci fu però uno scontro al calor bianco con Vladimir Putin che al tempo era a capo del governo. Non è pensabile che dopo aver perso l’Irak e la Libia la Russia possa decidere di perdere anche la Siria. Non soltanto per le basi nel Mediterraneo, ma anche perché è uno dei principali acquirenti di armi russe.
La Siria è l’esempio più chiaro di come la politica del multilateralismo sia impraticabile e suicida. La situazione oggi è triste e drammatica. Obama ha deciso di armare i ribelli con un atto unilaterale, ma trovandosi a inseguire gli altri. È forse troppo tardi. Homs e Aleppo stanno forse per cadere. Assistiamo inoltre alla nascita di brigate internazionaliste sciite. Parliamo di un numero di uomini che oscilla tra i 5mila e gli 8mila, provenienti dall’Iran, da Hezbollah, dalla Siria e integrati sotto il comando di Qasim Sulaimani della Forza al Quds, (una divisione del Corpo dei guardiani della rivoluzione iraniani, ndr).
In che cosa si differenzia la rivoluzione siriana?
La rivoluzione siriana è diversa dalle altre rivolte nel mondo arabo. In Egitto e in Tunisia era in piazza la gioventù dorata di quei Paesi. In Siria è la rivoluzione dei poveri contro i ricchi. Si sopravvaluta poi l’impatto dello scontro di religione. Dalla parte dei ribelli ci sono sì i sunniti, ma non per motivi religiosi come può essere nelle violenze con gli sciiti in Irak. Combattono perché gli alawiti, con i cristiani e moltissimi sunniti ricchi controllano le risorse economiche del Paese.
C’è il rischio che il conflitto si diffonda una volta per tutte in Libano? E qual è la risposta di Israele?
Il Libano combatte già in Siria con Hezbollah. L’aggravarsi del conflitto può trasformarsi in una situazione di crisi e di rischio anche per la missione Unifil. Lo Stato libanese tornerebbe a essere considerato una provincia siriana. Israele invece sta ad aspettare. La crisi ha cancellato il rischio che l’esercito siriano possa mettere in pericolo il Paese. Era infatti l’unico esercito arabo che potesse costituire una minaccia. Mentre gli altri, quello egiziano, quello giordano o quello iracheno, sono stati depotenziati.
Teme però colpi di testa e per questo tiene d’occhio le frontiere. Per colpi di testa penso ai missili S300 che i russi hanno annunciato di voler fornire ai siriani. L’unica funzione che possono avere è attaccare Israele. Il trasferimento non si è ancora concretizzato, ma il semplice fatto che sia stato annunciato dimostra come Putin sia un padrino affidabile per Assad. Di suo il presidente siriano resiste anche perché ha dalla sua il consenso di parte della popolazione, tra cui parte dei cristiani che già ebbero un ruolo nel regime iracheno.
Qual è la posizione della Turchia? Erdogan può ancora avere voce in capitolo o la situazione interna lo ha tagliato fuori?
La crisi siriana ha costretto la Turchia a ribaltare completamente la propria politica estera. Erdogan e il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, si ispiravano allo slogan “nessun problema con i vicini”. Avevano stretto rapporti con l’Iran, con la Russia, con la Siria. Ora hanno tanti problemi con tutti. Stiamo assistendo a una guerra per interposta persona. Ankara appoggia i ribelli che a loro volta combattono contro i pasdaran iraniani che prendo parte alle operazioni in Siria il cui alleato principale è la Russia. In mancanza di un intervento europeo o statunitense ci si aspettava che la Turchia facesse qualcosa. Ora Erdogan è costretto a mantenere la propria posizione, abbattere Assad e fare in modo che ci siano forze vicine ad Ankara nel futuro governo, a fianco delle componenti legate al Qatar e all’Arabia Saudita, gli altri Paesi coinvolti nella crisi.
Resterà una guerra per procura?
A questo livello di scontro tutto può succedere. Le armi, va ricordato, passeranno dai confini con il Libano, la Giordania, la Turchia e lì si cercherà di fermarle. È l’internazionalizzazione del conflitto. In politica estera Obama contende la palma di peggiore presidente degli Stati Uniti a Jimmy Carter, di cui si ricordano le follie e i ritardi nel capire costa stesse succedendo in Iran.