Ponendo il veto all’inclusione dell’audiovisivo nel mandato del negoziato transatlantico, la Francia ha compiuto un errore tattico e strategico.
Intendiamoci; l’idea che l’industria culturale dei Paesi europei debba in qualche modo essere sostenuta dai poteri pubblici (resta da vedere come e con quanta efficacia) è giusta e largamente condivisa in Europa.
Lo squilibrio strutturale con gli Stati Uniti che, forti della supremazia linguistica possono invadere gli altri mercati dopo aver ampiamente ammortito gli investimenti all’interno, è troppo grande. Ed è proprio questa la ragione dell’errore tattico.
Nessuno a Washington pensa che sia possibile di ottenere nuovi vantaggi in un mercato che l’America già domina ampiamente; l’audiovisivo è in fondo alle priorità. Del resto, mentre molti altri Paesi europei concordano con le preoccupazioni francesi, nessuno ne ha condiviso la posizione estrema.
Escludere l’audiovisivo a priori può inoltre complicare discussioni che invece sono necessarie sulla regolamentazione della diffusione dei contenuti su internet e sulla proprietà intellettuale. Chiunque abbia partecipato a un negoziato complesso sa che ogni partecipante dispone di un capitale politico limitato che deve sfruttare con cura.
Abusare delle “linee rosse”, alzare barricate per questioni su cui sarà abbastanza agevole avere soddisfazione è sempre un errore. Il timore diffuso è che ora gli americani approfittino dell’impuntatura francese per escludere a loro volta altri settori dal negoziato, con il rischio di aprire il vaso di Pandora.
Ma allora, perché? I negoziatori francesi non sono sprovveduti e sono coscienti dei rischi che corrono. La ragione sta nella debolezza politica di un governo che si sente obbligato di parlare alla pancia di un elettorato cui è incapace di dire la verità; in questo come in altri campi. Il rischio adesso è che la Francia si rinchiuda nella convinzione di vivere in un mondo ostile dominato da piovre neo-liberali, mentre i partner avranno la conferma di un paese inaffidabile, chiuso in se stesso e preoccupato più dei simboli che della sostanza.
Poi c’è l’errore strategico. Con la sua posizione la Francia ha confermato di guardare alla globalizzazione con diffidenza e considerandola solo un pericolo. Le cifre prodotte da vari circoli accademici sui potenziali benefici che il negoziato transatlantico può portare alle economie dei due continenti sono probabilmente esagerate anche se non trascurabili. Tuttavia, non è questo il principale obiettivo.
Finora Europa e America hanno avuto il monopolio nello stabilire le regole dell’economia mondiale; di fronte alla crescita della Cina e degli altri Paesi emergenti, questo privilegio esiste ancora, ma è destinato a finire.
Se Europa e America resteranno divisi sulle regole, perderanno questa (forse ultima) opportunità. Non si tratta di escludere la Cina e gli altri; ormai è chiaro che dovranno essere ascoltati. È però inutile farsi illusioni: quando i paesi emergenti non si accontenteranno più di sfruttare le regole da noi a suo tempo stabilite per un mondo che non esiste più ma pretenderanno di dettare le proprie, avremo la sgradita sorpresa di confrontarci con principi molto lontani dai nostri. Per questa ragione, nonostante le profonde divergenze di metodo e d’interessi e malgrado delicate questioni legate alla sovranità di ogni paese, è interesse comune che le prossime regole in materia di standard industriali, di regolazione dei mercati finanziari, di proprietà intellettuale, di tutela della concorrenza, di protezione delle libertà individuali, rispondano ai principi di sicurezza e trasparenza che sono alla base del sistema economico dei paesi dell’occidente.