Commento pubblicato oggi sul quotidiano La Gazzetta di Parma
Lo chiamano “governo del cambiamento” (diritti d’autore a Pierluigi Bersani), perché la parola “ribaltone” suona male. Ma è sempre la stessa minestra: come rovesciare in Parlamento il responso delle urne. O meglio, il non responso delle urne, visto che gli italiani hanno decretato il noto verdetto senza vincitori né vinti. E si deve solo all’ostinata saggezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, se da una cinquantina di giorni abbiamo almeno un governo che governi, anziché il deserto dei tartari.
Ma qui comincia l’avventura del Pd, che non si sa se analizzare con il metro della politica o della psicologia. Perché succede che il partito oggi guidato da Guglielmo Epifani si trovi in una condizione mai così sventurata e beata al tempo stesso. La sventura è presto detta: prima formazione alle politiche, ma senza i numeri per costituire una maggioranza degna, cioè stabile e decisionista. Da questo “vorrei, ma non posso” sono derivati, si sa, l’impuntatura di Bersani per l’impossibile incarico da presidente del Consiglio, le impallinature di Franco Marini e Romano Prodi al Quirinale, il ricambio del segretario in fretta e furia più tutto il contorno di polemiche e di drammi sulla sinistra incapace di vincere, persino quando vince.
Eppure, c’è il rovescio della medaglia. C’è un presidente del Consiglio espresso dal Pd. E i presidenti delle due Camere sono espressione del Pd e di Sel. E un rieletto e amatissimo capo dello Stato proviene dalla tradizione di sinistra, dal Pci in avanti. Il bicchiere sarà pure mezzo vuoto, visto che il Pd è costretto dai fatti (e dai numeri) a governare col Pdl e Scelta civica, anziché per suo conto. Ma il bicchiere è strapieno, se si pensa al ruolo nazionale e istituzionale esercitato da un partito che ha avuto il consenso “soltanto” del trenta per cento dei cittadini. Un consenso confermato senza entusiasmo alle ultime amministrative, che hanno registrato la super-vittoria del centro-sinistra sul centro-destra. Con un’astensione così alta, da aver tolto ai vincitori qualunque voglia di festeggiare in tempo, oltretutto, di crisi.
Ora, in questo clima che resta di disincanto o disgusto per la “politica politicante”, nonostante la generale richiesta al governo delle larghe intese d’agire subito e con vigore, a sinistra c’è chi pensa all’indietro tutta. Approfittando un po’ delle divisioni nel Movimento 5 Stelle, e un po’ aspettando (la classica “trepida attesa”…) le sentenze in arrivo per il Cavaliere tra processo Ruby e decisione della Corte Costituzionale su un conflitto di attribuzione riferito al processo Mediaset, nel Pd c’è chi sogna l’incubo da poco archiviato: un altro esecutivo frutto non già delle scelte del popolo sovrano, ma di una pasticciata e posticcia alleanza in Parlamento tra Pd ed eventuali fuoriusciti grillini.
Si dirà: la tentazione del ribaltone misura la febbre pre-congressuale del Pd. Ed è a sua volta un modo per tenere alla larga Matteo Renzi, la più importante carta del centro-sinistra che solo il centro-sinistra stenta a giocare sul tavolo. Siamo così al paradosso. Un partito che ha il suo presente in Enrico Letta e il suo futuro in Renzi – dunque abbastanza in salute rispetto ai malconci partiti di oggi -, ragiona ancora come se dovesse prendere la Bastiglia. Dimenticando, per eccesso di presunzione o di prepotenza, che la sinistra è sempre stata votata da una minoranza di cittadini in Italia. Persino all’epoca del pur poderoso Pci e del suo unico mini-sorpasso sulla Dc alle europee del 1984. Quando, sull’onda emotiva della scomparsa di Enrico Berlinguer, ottenne il 33,33 per cento dei voti (contro il 32,97 della Dc). Ancora e sempre solo un terzo del consenso degli italiani.
D’altronde, non è un caso se Romano Prodi, l’unico leader del centro-sinistra che ha vinto col voto popolare, fosse d’estrazione non comunista. Come il giovane Renzi, forse per questo tanto osteggiato da una parte della nomenclatura del “Partito”.
Ma il Pd è al bivio: se l’“Italia viene prima”, come amano ripetere, pensino a governarla, anziché a manovrare per esibire un’identità e un programma che non corrispondono né al mandato né alla volontà della grande maggioranza degli italiani.