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La via di Papa Francesco per l’unità dei cristiani

Superare le divisioni che danneggiano la Chiesa. Più chiaro di così, Papa Francesco, non poteva esserlo. Anche stamattina, nella consueta e seguitissima – oltre 50 mila i fedeli presenti in San Pietro, nonostante il gran caldo romano – udienza del mercoledì, il Pontefice ha avuto parole di sprone nella ricerca di una via che porti le diverse comunità e confessioni a ritrovare la condivisione e l’unità in Cristo, di cui la Chiesa è il corpo vivente. I danni si ripercuotono su tutti, non solo all’interno del mondo cattolico, ma “tra le comunità: cristiani evangelici, cristiani ortodossi, cristiani cattolici”. Per questo, è l’esortazione di Bergoglio, “dobbiamo cercare di portare l’unità”. Una sorta di catechesi contro gli egoismi e i personalismi come idoli del Terzo millennio, che portano lacerazioni allontanando la verità, e che il Papa sta seguendo ormai da diversi giorni.

La conferenza tra Chiesa cattolica e Federazione luterana mondiale

Così è difficile non collegare le parole di Francesco a quanto stabilito ieri in un documento congiunto (della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale (Lwf), in una conferenza tenuta a Ginevra per gli eventi celebrativi dei 500 anni della Riforma, che si svolgeranno nel 2017. E mentre il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, sottolinea che “la divisione nella Chiesa è qualcosa che non possiamo festeggiare”, e il responsabile per le relazioni cattolico-luterane dello stesso dicastero, monsignor Matthias Turk, intervistato da Radio Vaticana, specifica che “le ragioni che portano a divisioni nella Chiesa spesso si fondano su malintesi e su interpretazioni diverse dei medesimi contenuti di fede”; il reverendo Martin Junge, segretario della Lwf, conclude che “si tratta di un passo molto importante in un processo di guarigione di cui tutti abbiamo bisogno”.

Se questo possa portare a una qualche forma di integrazione o “riassorbimento” delle comunità luterane all’interno della Chiesa cattolica, sulla scia di quanto accaduto con gli anglicani d’Inghilterra, è difficile, e forse presto per dirlo. Ma certo il 2017 può essere una data simbolo da non lasciar passare invano e, come ricordava ancora il cardinale Koch in un preciso resoconto di Paolo Rodari sul Foglio meno di un anno fa, “se simili desideri verranno espressi dai luterani, allora toccherà rifletterci sopra. L’iniziativa tocca però ai luterani”. Il documento unitario presentato dalla Lwf suona quindi, ad oggi, come una buona base di partenza.
Del resto, molte cose potranno essere contestate alla Chiesa meno che non abbia impresso una svolta nel cosiddetto dialogo ecumenico all’interno della cristianità. Il 4 ottobre 2009, con la firma della costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, che “prevede la possibilità dell’ordinazione di chierici sposati già anglicani, come sacerdoti cattolici”, attraverso l’istituzione di “ordinariati personali”, ovvero vescovi e prelati con competenza non territoriale, Benedetto XVI ha di fatto avviato la ricucitura dello scisma anglicano.

Il momento di rottura

La rottura con la chiesa di Roma era maturata nel 1534 per la volontà di re Enrico VIII di sposare in seconde nozze Anna Bolena, sua amante nonostante lui fosse legato da matrimonio con Caterina d’Aragona, e per il ferreo diniego di Papa Clemente VII a concedere l’annullamento, per ragioni canoniche e di opportunità: evitare di stuzzicare le ire di Carlo V (nipote di Caterina), protagonista pochi anni prima del cosiddetto “sacco di Roma” e della fuga del Pontefice a Castel Sant’Angelo. A seguito della costituzione apostolica del 2009 l’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, cardinale William Levada, si era subito affrettato a dichiarare la casualità temporale della riapertura agli anglicani con l’avvio del dialogo con la Fraternità San Pio X.

Il rifiuto del Concilio Vaticano II

Infatti, dopo un primo positivo approccio tra la delegazione vaticana, incaricata di seguire il dossier, e i seguaci di monsignor Lefebvre, nell’ottobre del 2009, le acque si sono successivamente sempre più agitate, spingendo addirittura il nuovo prefetto dell’ex Sant’Uffizio Gerhard Mueller a dire che “il dialogo è finito”, che “sulla fede non ci sono trattative” e “non ci possono essere riduzioni della fede cattolica, tanto più se formulata validamente dal Concilio Vaticano II”. Ma proprio la difficoltà ad accettare l’ultimo Concilio come parte della tradizione della Chiesa, e il rifiuto di alcune posizioni in esso espresse (ecumenismo, collegialità, libertà religiosa, messa riformata, dialogo tra le religioni), è il principale punto di scontro con la Fraternità, oltre alle contestate, e ormai numerose prese di posizione sugli ebrei, da quelle del negazionista Williamson alle parole del superiore monsignor Bernard Fellay, che inserisce gli ebrei tra i “nemici della Chiesa”, assieme a massoni e modernisti. Ad oggi i lefebvriani, espulsi dalla Chiesa nel 1976, devono ancora inviare una risposta ufficiale alla versione definitiva del “Preambolo dottrinale”, che la Santa Sede vuole far loro accettare come precondizione per il ritorno nella piena comunione della Chiesa.

Cosa è cambiato e cosa cambierà

Dalla scadenza di una sorta di ultimatum per l’accettazione (il 21 febbraio), che Roma avrebbe loro rivolto, sono cambiate molte cose, a cominciare dal Papa, ma lo stallo permane. E non è escluso che la Santa Sede possa decidere di rivolgersi ai singoli sacerdoti della Fraternità.
Dal 13 marzo il fascicolo è passato nelle mani di Francesco. Il percorso è lungo e accidentato, ma chissà che intanto le parole sull’ “unità superiore ai conflitti” non abbiano fatto fischiare le orecchie a qualcuno.

 

 

 



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