Parlare di ambiente e salute, in Italia, è ancora possibile. Sembra difficile farlo, quando nel declinare il binomio bisogna inserire un terzo fattore: l’industria. La vicenda dell’Ilva di Taranto fa scuola.
Il Parlamento, e tutti i suoi occupanti – a vario titolo interessati alla questione – ripetono (quasi) sempre la stessa cosa: “Coniugare ambiente, salute, e continuità produttiva” (che non vuol dire soltanto salvare l’industria, ma anche mantenere i posti di lavoro).
Ora, partendo dalla fine, il Foglio di Giuliano Ferrara ha ospitato un “gustoso” scambio di osservazioni tra Adriano Sofri e Umberto Minopoli, presidente di Ansaldo nucleare, sulle diossine e in generale sull’inquinamento che ha avvelenato quella terra (e questo è un fatto).
Il pensiero di Sofri è chiaro: “Taranto è una Seveso cronicizzata”; lì – ha spiegato – gli animali al pascolo brucano il terreno malato, alcune greggi macellate perché dal sangue colmo di diossina, le cozze neanche a parlarne, le polveri sottili (PM10) micidiali, e i bambini del quartiere Tamburi che non possono giocare ai giardinetti.
Il punto, su cui si è soffermato Sofri, è che per Minopoli la diossina non è un prodotto dell’Ilva, ma dei cementifici della zona (Cementir). Sofri, dopo aver “indagato” sul profilo facebook di Minopoli, parla di una sua “chiara propensione alla scorrettezza politica”, trovando post in cui l’attuale presidente di Ansaldo nucleare dice per esempio “sgombriamo il campo: non è la produzione di diossina l’inquinante più pericoloso e preoccupante… La diossina a Taranto è presente certamente per altri tipi di attività. La diossina presente in quel territorio è certamente riportabile alla produzione di cemento, non è riportabile a quella del coke d’acciaio perché non è chimicamente possibile che provenga da lì…”. Sofri ribatte che “le emissioni inquinanti dell’Ilva provengono dal parco minerali (polveri sottili), dalla cokeria (Idrocarburi policiclici aromatici, Ipa, e specialmente benzo(a)pirene) e dall’agglomerazione (diossina)”.
Oggi Minopoli ha risposto, scrivendo direttamente all’Elefantino, e “ribadendo” che la diossina a Taranto non è imputabile all’Ilva: “La diossina” poteva esser emessa “solo dall’impianto di agglomerazione” che però – afferma – “è quello che ha conosciuto importanti ammodernamenti sotto il profilo ambientale che hanno abbattuto le emissioni dell’agglomerato a livelli significativamente inferiori al valore limite”. Laconica la risposta di Ferrara, che citando Samuel Johnson su Burke lo accomuna a chi si comporta “come un leone che se la prenda furiosamente con la sua coda”.
Senza contare il protocollo di bonifica dell’area di Taranto (che venne firmato il 26 luglio al ministero dell’Ambiente, lo stesso giorno in cui scattarono i primi arresti e gli operai presero ad occupare il ponte girevole), i decreti messi a punto per tenere insieme ambiente-salute-industria sono tre, l’ultimo, il terzo, di pochi giorni fa. Questo senza contare che la “nuova” Autorizzazione integrata ambientale (Aia), rilasciata ad ottobre, di questo, e non solo, tiene conto.
Ma, il caso della diossina era noto. E da tempo. Così si sapeva bene quello che veniva e non veniva fatto in termini di sostenibilità ambientale ed adeguamento tecnologico all’Ilva dalla famiglia Riva. Sicuramente lo sapeva il governatore della Puglia, Nichi Vendola, che sui limiti della diossina fece una legge con soglie più restrittive rispetto ai limiti già fissati dalla normativa.
Ebbene il Foglio appena due settimane fa ospitava una conversazione tra Guido Viale e proprio Minopoli insieme con Ferrara cui dava un titolo di apertura “defintivo”: “La tragedia dell’Ilva non può essere risolta soltanto in punto di diritto”. Il colloquio, che partiva dalla derubricazione di come l’industria post-moderna si posizioni nella società, si è imbattuto presto nelle diverse posizioni degli interlocutori e nelle notizie ritenute più o meno veritiere che circolano sulla questione Ilva: si ricorda il “modello” organizzativo e produttivo dell’Italsider, preso poi dai Riva nel 1995 e da loro “un gioiello, lasciato andare” (Romano Prodi dixit).
La domanda di fondo è: si può fare l’acciaio? In Italia?
Viale ne fa una questione di tempi che cambiano: “Il problema è di commisurare il livello d’inquinamento con le tecnologie disponibili, più recenti e aggiornate, per contenerlo e anche di avere una coscienza culturale e sociale della popolazione e delle maestranze rispetto al problema ambientale”. Lo sfondo sociale emerge man a mano che si parla di ambiente e salute, e naturalmente della maggior presa di coscienza di oggi rispetto a vent’anni fa e al fatto che “la capacità degli impianti esaurissero progressivamente la loro tenuta” aumentando “il livello d’inquinamento”. La posizione di Minopoli è nota.
Sui piatti della bilancia chiamata Ilva, che deve fare i conti anche con le inchieste della Magistratura, ci sono da un lato ambiente e salute, dall’altro industria e occupazione (che come detto ci viene ricordato spesso dai nostri parlamentari): se per i primi si sono mobilitati associazioni e movimenti, cittadini e famiglie colpite da casi di malattie, nonché la Magistratura, per i secondi si sono espressi i due governi che hanno toccato più da vicino la “crisi” di Taranto, prima Mario Monti e ora Enrico Letta. La percezione che se ne ha, piaccia o no, è questa. Chi invoca la chiusura dello stabilimento e chi chiede le Bat, cioè le migliori tecnologie disponibili nel settore, e l’applicazione dell’Aia. A chi credere?
Far convivere le due cose, ai due estremi sembra impossibile, ma la strada d’uscita prima ancora che nella soluzione particolare, forse, andrebbe rintracciata nel risolvere l’intrigo tra “l’ambientalismo” e “l’industrialismo” (immagini tutte italiane) che si è ormai creato nel nostro Paese. Per molti la risposta è nella ristrutturazione dei processi manifatturieri e nell’innovazione, per altri semplicemente nell’abbandonarsi all’idea di un futuro migliore.