Non è difficile comprendere perché i politici si siano mostrati soddisfatti dell’esito della riunione dell’Ecofin e dell’Eurogruppo del 20-21 giugno: devono comunque essere “popolari” nei confronti degli Stati che rappresentano e dare l’impressione di avere, comunque, portato qualcosa a casa (anche quando il paniere è vuoto). Nel caso del Ministro dell’Economia e delle Finanze dell’Italia, Fabrizio Saccomanni (il quale non ha un bacino elettorale a cui rendere conto), c’è, in ogni caso, una punta di soddisfazione nell’avere ottenuto, con una settimana di anticipo, la chiusura della procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo.
È più misterioso comprendere perché editorialisti di rango abbiamo intonato un coro a cappella sul successo della riunione. Si può parlare di successo soltanto se lo scenario contro-fattuale alternativo fosse stata una furibonda litigata tra i 17 (da ieri diventati 18, non appena verranno espletate alcune procedure ) dell’Eurozona e la somministrazione dell’olio santo all’Eurozona medesima.
Su Formiche.net del 21 giugno , Elisa Maiucci ha illustrato, con dovizia di dettaglio, gli accordi raggiunti ed i limiti posto dagli stessi Ecofin ed Eurogruppo alla portata di ciascun. Non è il caso di tornare sull’argomento se non per sottolineare che ben altre erano le aspettative: ci si attendavano passi significativi, in vista del Consiglio Europeo del 28-29 giugno, verso quell’Unione bancaria europea che – ne sono ormai tutti convinti – è elemento essenziale per la stessa sopravvivenza di lungo periodo dell’Eurozona. Più nello specifico, ci si attendeva che 15 dei 17 (il diciottesimo non fa ancora parte dell’Eurogruppo) facessero sentire la loro voce, all’unisono, nei confronti dell’accordo franco-tedesco che – come ha scritto efficacemente “The Economist” – rappresenta un accordo talmente al ribasso da rendere l’Unione bancaria poco più di un’espressione nominalistica. L’accordo, sostanzialmente, la limita ad approfondire e migliorare le intese già raggiunte in materia di vigilanza – essenzialmente condivisa tra la Banca centrale europea (Bce) e le autorità nazionali (differenti da Stato a Stato). Una presa di posizione comune avrebbe anche contribuito ad incidere sul verdetto della Corte Costituzionale tedesca atteso per l’autunno (le udienze sono appena iniziate).
In base all’accordo franco-tedesco si eludono gli altri due pilastri: l’armonizzazione delle regole sulle garanzie dei depositi (e ancora meglio qualche forma di garanzia comune) e una strategia comune per i salvataggi di istituti in pessime condizioni. La crisi cipriota dovrebbe avere insegnato che senza regole armonizzate in tema di garanzia dei depositi, si incoraggia la speculazione (anche e soprattutto da fuori dall’Eurozona, ma con danni per tutta l’area dell’euro). Le regole per i salvataggi comportano decisioni amare su chi se ne accolla il costo, su quali procedure comuni adottare per individuare i rami da tagliare (tramite bad bank) e quelli da cercare di riportare a redditività. È chiaro che i contribuenti della Germania e di altri Stati i cui sistemi bancari non corrono rischi non vogliono essere i soli a pagare oppure quelli a pagare di più.
Un’Unione bancaria con pilastro assomiglia ad uno sgabello che si deve reggere su una gamba sola oppure ad un “guéridon” , un tavolo alto e stretto, generalmente utilizzato come base per una lampada o un vaso, e che si regge su una colonna o sulla statua di una figura. Il primo è per equilibristi. Il secondo per salotti francesi ottocenteschi ed una colonna robusta, non un fastello in cui la Bce deve coordinarsi con una trentina di autorità nazionali differenti, e divergenti.
Non è chiaro chi ha vinto. Ha perso senza dubbio l’Unione monetaria.