Pubblichiamo un’analisi del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia uscita oggi sul Tempo.
Chissà se anche tra i novelli riformatori della Costituzione vale quel “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Finora è stato così, e perciò da trent’anni, dalla prima commissione-Bozzi nel 1983, tutte le Bicamerali che si sono succedute hanno fallito l’obiettivo, mai ascoltando le richieste degli italiani: governi stabili, senso dello Stato, rispetto della volontà del popolo sovrano.
L’ultimo flop del cambiamento si chiama federalismo, e porta con sé il naufragio del titolo V della Costituzione. Fu modificato nel 2001 all’insegna di un regionalismo a tratti persino comico. Si rilegga la formulazione del “nuovo” articolo 114 della nostra Carta, che pone sullo stesso piano il più piccolo Comune d’Italia con trentatré abitanti e lo Stato unitario di oltre sessanta milioni. E che conferisce alle Regioni (articolo 117) “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Una follia.
Qualunque competenza oggi imprevista e imprevedibile finirà in mano ai governatori delle ventidue Repubblichette (venti Regioni più le Province autonome di Trento e di Bolzano), anziché al governo della Repubblica. Si vuol far prevalere il campanile all’universo, facendo valere il “più ci divideremo, più ci comprenderemo” al posto dell’“uno e indivisibile” che rende gli italiani solidali e consapevoli d’essere nazione.
Ma a certificare anche la debolezza legislativa dei Consigli regionali, ora arriva un verdetto insospettabile e ineguagliabile, perché pronunciato dal massimo custode delle leggi: la Corte costituzionale. Delle trentasette sentenze emesse nei primi sei mesi di quest’anno in seguito a ricorsi presentati dal governo contro leggi regionali, il 95 per cento delle volte la Corte ha dato ragione al governo e torto alle regioni. Una percentuale mai raggiunta prima nella pur lunga storia di conflitti tra istituzioni.
È la conferma che sull’onda della demagogica riforma del titolo V, le regioni si credono onnipotenti. Al punto d’aver violato la Costituzione in un numero altissimo di casi, se la Corte ha accolto le obiezioni del governo quasi sempre.
Ma, a leggere gli atti parlamentari, al danno di un modo di legiferare contrario alla lettera e allo spirito della Costituzione adesso si rischia l’aggiunta della beffa: l’harakiri costituzionale.
Secondo una mozione da poco presentata alla Camera (prima firmataria Giorgia Meloni), c’è chi starebbe pensando a una nuova strada per violare la Costituzione senza dare nell’occhio: quella di far addirittura ritirare le impugnative del governo! La mozione cita una legge provinciale del 2012 votata a Bolzano solamente dai consiglieri di lingua tedesca “per portare alla cancellazione di migliaia di toponimi di lingua italiana”.
Una legge contro la quale il governo-Monti ricorse alla Consulta lamentando una valanga di violazioni di diritto nazionale e internazionale, oltre all’incredibile circostanza che si potesse immaginare d’impedire che in Italia gli italiani (o chiunque) potessero chiamare in italiano luoghi con quasi un secolo di storia toponomastica bilingue, italiano e tedesca, alle spalle. Siccome la giurisprudenza della Corte e tutte le leggi in materia darebbero piena ragione al ricorso del governo, la Svp ha chiesto all’alleato elettorale Pd l’“emanazione di una norma d’attuazione superando l’impugnazione della legge”.
Una frase sibillina che, secondo i proponenti della mozione, suonerebbe così: il governo-Letta ritiri il ricorso del governo-Monti. Una mossa senza precedenti giuridici e di inaudita gravità politica, linguistica e culturale, perché lascerebbe in vigore la legge provinciale che fa strame della forma italiana in uso da quasi un secolo dei nomi di luogo bilingue dell’Alto Adige. Dove anche lo Statuto speciale, che è legge costituzionale, ricorda a scanso di equivoci: “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato”. E la lingua di Dante non contempla la parola “harakiri”.