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Il governo canterà vittoria, ma a Bruxelles sarà disfatta

Se è non è certo, è verosimile o altamente probabile: i “nostri eroi” torneranno da Bruxelles, dove è in corso il Consiglio Europeo (l’organo che riunisce i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea) cantando vittoria e ringraziando la maggioranza che ha contribuito loro a farla ottenere. Anche se avranno quasi certamente perso.

Il comunicato finale, già steso da tempo e da un paio di settimane in giro non solo tra le Cancellerie ed i parlamentari europei (il documento è timbrato “SEC” ossia “segreto” ma nelle istituzioni europee la trasparenza è totale e la riservatezza nulla), sostiene che finalmente in Europa si vede una luce alla fine del tunnel e ci sono prospettive di ripresa per l’UE a 27; per i “discoli” mediterranei tali prospettive dipendono dai tempi e dai modi con cui faranno le riforme; all’Italia si riserva un sorriso – tra il tenero ed il beffardo – quasi a dire che il solco della buona strada sta per essere tracciato.

Naturalmente, “vittoria” e “sconfitta” dipendono dagli obiettivi che ci era prefissi. Se si voleva una pacca sulle spalle e qualche miliardo di euro (sempre che lo si sappia spendere) per l’occupazione giovanile, si può essere convinti di tornare vincitori, come il Radames dell’Aida. Soprattutto se ai sorrisi del resto dell’UE, se ne aggiunge uno particolarmente affettuoso da Frau Merkel.

Se, invece, – come ha suggerito il 24 giugno alla “lezione Ippolito” Dominick Salvatore (l’economista italiano naturalizzato americano i cui libri sono tra i più tradotti ed i più venduti al mondo)- ci si proponeva di avviare una reale trattativa che rivedesse le norme del Fiscal Compact e dello stesso Trattato di Maastricht al fine di consentire all’Italia (ed ad altri Paesi dell’Eurozona) di porsi su un sentiero di crescita, l’esito del Consiglio Europeo deve essere considerato una sconfitta.
Mettersi sul solco della crescita dopo circa otto di recessione non vuole dire ottenere nel 2014 un aumento del Pil dello 0,5-1%.

Non vuole neanche dire “effettuare un salto” dal sottozero al 3% l’anno per una dozzina di mesi. Significa un tracciato che ci consenta per un lungo lasso di anni di segnare tassi di aumento del Pil tra l’1,5% ed il 2% l’anno , quale consentito da una struttura demografica anziana e da una struttura produttiva matura, e fortemente danneggiata (specialmente nel manifatturiero) dall’evoluzione economica degli ultimi sette anni. Occorre effettuare le riforme (riduzione della pressione fiscale, revisione degli incentivi alle imprese, miglioramento di istruzione e formazione, completamento del riassetto del mercato del lavoro) essenziali per ricostruire la struttura industrial manifatturiera e fare sì che si cresca a tassi sul 2% piuttosto che su meno dell’1%.

Vuole anche dire effettuare una vera “spending review” per distinguere la spesa pubblica produttiva (da potenziare) e spesa pubblica improduttiva (da ridurre gradualmente sino ad elimimare). Significare pure rilanciare l’investimento pubblico al fine di ridurre il costo all’economia (40 miliardi di euro l’anno unicamente nel comparto dei trasporti) dell’inadeguatezza delle infrastrutture.

Questo elenco non è che indicativo. Qualsiasi economista con un po’ di formazione econometrica – ce lo dica Marco Buti che è capo della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari dell’Unione Europea, UE- sa che non è possibile mettersi sul solco della crescita, mantenere il disavanzo contabile al di sotto del 3% del Pil e ridurre di ventesimo l’anno quanto ci separa da un rapporto del 60% tra stock di debito e Pil.

Senza qualche risultato di questa natura, il coretto a cappella potrà essere di vittoria. Speriamo che non ci credano e lo facciano unicamente per tenere alto il morale delle truppe.



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