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L’Europa a tre di Merkel, Hollande e Letta

Secondo un recente sondaggio condotto dall’Istituto americano Pew Research – intitolato “Il nuovo malato d’Europa: l’Unione Europea” – il grado di affidabilità di noi Italiani è considerato il più basso d’Europa dai Tedeschi, dagli Spagnoli e (sorpresa!) da noi stessi Italiani!

La Germania è invece indicata (indovina un po’…) come la più affidabile da sette paesi su otto (i principali più l’euroscettica Repubblica Ceca), ma anche la più arrogante da cinque di questi.

D’altra parte, dal 2007 a oggi, gli italiani con un’opinione molto favorevole della UE sono scesi dal 78% al 58%, gli spagnoli dall’80% al 46%, i francesi dal 62% al 41%. Paradossalmente, l’unica nazione a essere diventata più favorevole nell’ultimo anno è quella ceca.

Enrico Letta, poche settimane fa, ha formato un governo costituito per il 33% da donne (contro il 25% della media europea) e sostenuto dal Parlamento più giovane della storia repubblicana, con un’età media – 48 anni – inferiore al Bundestag – 50 – e all’Assemblée Nationale – 55.

Qualche giorno dopo il suo insediamento, Letta ha voluto sottolineare – volando a Berlino, Parigi e Bruxelles – che questo suo viaggio “non rappresenta un atto di politica estera, ma di politica interna”, perché in Europa vivremo o moriremo tutti, nessuno escluso. Di qui la felice intuizione di concordare politiche comuni per rilanciare le nostre economie, dopo la più lunga recessione vissuta dall’Eurozona dall’introduzione dell’euro (con il primo trimestre del 2013, siamo al sesto consecutivo).

Dobbiamo individuare rapidamente forme di intervento che ripristinino la coesione sociale in molti Paesi, concordando iniziative che favoriscano i giovani e diminuiscano l’impressionante livello della disoccupazione (6 milioni sono i disoccupati in Spagna, 3,2 in Francia, poco meno di 3 in Italia), unitamente a proposte che liberino risorse produttive oggi disperse in strutture industriali spesso non competitive sui mercati internazionali, da un lato; troppo poco capitalizzate, dall’altro. D’altro canto, è necessario altresì continuare nelle riforme strutturali, prendendosi rispettivamente cura delle proprie debolezze (coinvolgendo i paesi cosiddetti virtuosi), così da garantirci più competitività nel lungo periodo.

La recente riforma delle pensioni in Italia, secondo uno studio del Fondo Monetario, comporterà nel 2050 una riduzione della spesa pensionistica del 34% rispetto ai valori correnti, contro un aggravio significativo nel Regno Unito (+13%), in Germania (+30%), negli Stati Uniti (+38%) e in Canada (+43%). In molti Paesi europei, come emerge dal citato sondaggio, le opinioni pubbliche tendono ad attribuire la responsabilità dell’attuale crisi economica alla moneta unica. Ma se per una volta abbandoniamo l’atteggiamento qualunquistico di “gettare via il bambino con i panni sporchi”, comprenderemo facilmente che il problema è stato semmai di non aver corredato l’introduzione dell’euro con le quattro Unioni che oggi il Premier italiano ha citato espressamente nel suo programma di Governo: economica, bancaria, fiscale e politica.

L’Unione Economica – e monetaria per I paesi aderenti all’euro – si riferisce all’integrazione dei mercati, per la quale l’Unione Europea è più avanti, anche se la crisi ha messo in discussione alcuni principi base del Mercato Unico, come la libera circolazione dei capitali. L’idea di creare l’Unione bancaria nasce dall’esigenza di disinnescare il circolo vizioso tra rischio paese e rischio bancario, che sta paralizzando la capacità degli Istituti finanziari di sostenere la ripresa economica.

Sarebbe importante procedere anche verso un’Unione Fiscale, magari aumentando progressivamente il bilancio comunitario dall’attuale risicato 1% del Pil europeo a un 2- 3%, che consenta a un governo europeo di condurre politiche anticicliche, nonché di far fronte a eventuali shock economici cosiddetti asimmetrici, che colpiscono solo alcune regioni/Stati, come sta accadendo in questi anni con i paesi periferici della zona euro.

Anche la rigorosa Germania sembra aver compreso che, in caso di default dell’Italia (il Pil italiano rappresenta il 17% di quello dell’Eurozona, a differenza di quello greco, solo il 2,5%), non potranno bastare i 750 miliardi di Euro del Fondo Europeo di gestione delle crisi (ESM) a intervenire su un debito pubblico che oggi ammonta a più di 2mila miliardi. Allo stesso tempo, è oggi più facile riscontrare consapevolezza, soprattutto tra gli industriali, del fatto che il modello economico tedesco è stato e continua a essere trainato dalle esportazioni, che hanno come prevalente mercato di destinazione i Paesi europei oggi in deficit.

Per l’Unione Politica, se anche François Hollande ha potuto indicarla come un obiettivo da perseguire entro due anni, violentando la famigerata “Grandeur” gallica, può forse voler dire che siamo più vicini di quanto molti opinionisti scrivano a passi decisivi verso gli Stati Uniti d’Europa, unico sbocco per uscire dalla crisi (che non è solo economica) e tornare protagonisti.

Giuseppe Scognamiglio è editore di East


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