Questo commento è stato pubblicato su La Gazzetta di Parma.
C’è un solo modo per risolvere con dignità il caso dell’insulto razzista rivolto dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, al ministro dell’Integrazione, Cécile Kyenge, paragonata a un orango. Calderoli dica “ho sbagliato e me ne vado”.
Per quanto non sia altissima la reputazione delle nostre istituzioni, continuiamo a credere che un ex ministro e attuale numero 2 a palazzo Madama abbia qualche obbligo in più della persona qualunque pronta a dire la prima cosa che le passa per la testa, mentre beve il caffè con gli amici al bar sotto casa. “Bar sport” viene infatti definito quel luogo del libero sfogo collettivo, del pettegolezzo spinto, del pregiudizio più osceno pronunciato a voce alta, dato il contesto non rappresentativo di nulla, fuorché della propria e personalissima stupidità. Ma il vicepresidente del Senato anche quando va a bere il caffè, non è un uomo qualunque. Le sue parole valgono e pesano sempre, e molto di più di quelle dei comuni cittadini che magari l’hanno pure eletto al Parlamento.
E così abbiamo assistito all’intervento del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, costretto a parlare di “imbarbarimento della vita civile”. E la bufera monta con richieste politiche trasversali che il vicepresidente lasci almeno la funzione rappresentativa del Senato. E un assessore veneto sempre della Lega ha commentato: “Vittima è l’orango”. E il solito Matteo Salvini al presidente Napolitano: “Taci che è meglio!”. “È una vergogna, intervenga Maroni per chiudere rapidissimamente questa pagina”, è l’appello del premier Enrico Letta.
Calderoli nel frattempo s’è scusato. Ma spiegando che il suo giudizio era estetico e non politico. Che lui ama associare i politici agli animali. Che nella sua espressione non voleva esserci nulla di razzista. E aggiungendo (Corriere della sera) che “gli pare assurdo che per fare un governo si debbano scegliere ministri tedeschi e del Congo”. Distinguendo, infine: Cécile non è italiana, ma ha la cittadinanza italiana, e non parlerebbe un italiano corretto.
Siamo così arrivati al nocciolo della questione: gli stranieri in patria. Esistono tanti modi per essere italiani. Ma il principale non potrà mai essere determinato dalla Legge. Non dal cosiddetto e lungimirante ius sanguinis (è italiano chi discende da italiano: la norma in vigore), né dal realistico “ius soli” che si vorrebbe introdurre in aggiunta e regolare: è italiano anche chi è nato in Italia, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori. In Parlamento giacciono varie proposte per stabilire il percorso per riconoscere la novità di un milione di giovani nati o cresciuti tra noi da madri o padri stranieri. Quando farli diventare italiani: subito? Dopo cinque anni di residenza dei loro genitori in Italia? Dopo che hanno finito il ciclo scolastico elementare?
La verità è che è italiano innanzitutto chi si sente italiano, a prescindere dal sangue o dal suolo. È molto più italiana, per dire, la “congolese” Kyenge (o la “tedesca” Josefa Idem, addirittura stella della Nazionale di canoa), che non l’”italiano” all’anagrafe Umberto Bossi, per citare un altro ex ministro che arrivò anche lui a insultare, a insultare il Tricolore. La “congolese” Kyenge, al contrario, ha scelto liberamente la sua nuova patria italiana, laureandosi in medicina all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, specializzandosi in oculistica a Modena, parlando un italiano di tutto rispetto pur con l’accento della sua lingua-madre, vivendo una vita familiare e di amicizie italiana.
Non è accettabile che chi ha scelto l’Italia per amore e con immensi sacrifici, possa essere sbeffeggiato da politici nei cui comizi s’assiste al “chi-non-salta-italiano-è”. Calderoli non ha diritto a distribuire alcuna patente di italianità. Anche sa da ministro giurò d’essere fedele alla Repubblica, alla Costituzione e alla Nazione. Il che rende ancor più grave la sua posizione.