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La sfida della Cina? Non meno del 7% di crescita

L’asticella della crescita al 7% è il limite di tolleranza fissato dalla Cina. Una crescita inferiore non è accettabile anche se si parla di ritmi impensabili per resto del mondo, in particolare l’Europa. Nel progetto cinese per raggiungere il traguardo di una società moderatamente prospera entro il 2020 non si può tuttavia scendere sotto il 7&, scrive l’agenzia Xinhua in un commento che riprende quelle che sono dichiarazioni attribuite al premier Li Keqiang.

Informazioni importanti, ha spiegato Lu Ting, di Bank of America, a Bloomberg perché stanno a indicare che l’obiettivo di crescita resta il 7,5% mentre il 7 resterà il limite almeno fino al 2020, periodo durante il quale il governo spenderà in ferrovie, edilizia sociale, infrastrutture tecnologiche.

La Cina è cresciuta negli anni sino a superare il Giappone come seconda economia al mondo. Un recente sondaggio del Pew Research Institute condotto in 39 Paesi indica che la maggioranza degli intervistati ritiene supererà presto gli Usa come prima potenza economica. Tuttavia la crescita del Dragone ha iniziato a dare segnali di frenata che mettono a rischio uno dei pilastri su cui il Partito comunista basa la propria legittimità e forza: aver dato prosperità ai cittadini.

Tra aprile e giugno l’economia cinese è cresciuta del 7,5%, in calo rispetto al 7,7 del primo trimestre e allo 7,9% di fine 2012. La forbice indicata da Li dovrebbe permettere di mantenere crescita e occupazione stabili, evitando tuttavia l’inflazione. Il Plenum del Comitato centrale del Partito comunista in autunno sarà l’occasione per introdurre il nuovo piano di riforme economiche.

La scorsa settimana non sono mancati i commenti sulla stampa internazionale che guardano con preoccupazione al rallentamento cinese e alla fine del sistema cinese come lo si è conosciuto negli ultimi decenni, un modello fatto di esportazioni e manifatturiero a basso costo che sembra aver raggiunte i propri limiti, come scrivo commentatori del calibro del Nobel Paul Krugman.

Ricorda George Friedman su Stratfor che uno dei fattori che ha contraddistinto la crescita cinese è stato evitare la disoccupazione a esempio finanziando progetti infrastrutturali ed edilizi che in nome del creare lavoro continuavano a essere foraggiati anche se inefficienti e senza profitti.

Un altro elemento da tenere a mente è la povertà dei cittadini, nonostante la crescita della classe media, e la necessità di far crescere la domanda interna.

La Cina del futuro, secondo Friedman, sarà diversa da quella che conosciamo. La dirigenza dovrà concentrarsi sul contenere le conseguenze sul piano sociale e politico delle trasformazione della propria economia, una trasformazione che sembra puntare non più sulla quantità ma sulla qualità.

Nel resto del mondo i cambiamenti del modello cinese si ripercuoteranno maggiormente sui Paesi fornitori di materie prime. Per Friedman Pechino vedrà ridurre il suo ruolo regionale. Spiega che la geografia la limita nel proprio progetto di espansione in Eurasia e servirebbero capacità logistiche di cui ancora Pechino non può contare. Tuttavia gli eventuali problemi economici non si ripercuoteranno in un maggiore interventismo militare che vada oltre la retorica bellicista. La forza sarà usata soprattutto per ragioni domestiche. Già oggi per la sicurezza interna la Repubblica popolare spende più che per la Difesa.

La Cina, conclude Friedman, continuerà a essere comunque una potenza. Invece sarà sostituta nel ruolo di fabbrica del mondo a basso costo. Al momento nessuno potrà rimpiazzare la Cina, ma trovare il successore sarà per Stratfor uno degli obiettivi dei prossimi anni.

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