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Pd tra larghe intese e vicoli stretti

Segretario e pure candidato premier? Primarie aperte o chiuse? E quando?

Queste sono alcune delle domande che assillano il Pd e dilaniano il suo vertice. Giusto, un vero partito a base democratica e non leaderistica come il Pd è bene che discuta anche di regole e procedure. In altri partiti decide o il leader maximo o la Rete (ovvero il guru in servizio in quei giorni).

Ma mentre gli esponenti del vertice del Pd dibattono fin troppo animatamente, è in atto di fatto una trasformazione non di facciata del Pd in quanto socio fondatore del governo delle larghe intese. Per non parlare del fatto che l’anti austero Pd ha appoggiato il governo più austero e filo-tedesco, ovvero l’esecutivo presieduto da Mario Monti, salvo poi farsi paladino in campagna elettorale (ma in maniera meno efficace del berlusconismo brunettiano anti Merkel) di una svolta nella politica economica, criticando alla radice teoria e prassi di quel governo che pure aveva sostenuto.

Ma torniamo all’oggi. Mentre il Pd si balocca su Matteo Renzi e i media si impaludano su una frase di Stefano Fassina sulla evasione per sopravvivenza, chissà come vive la mitologica “base” del Pd l’esperienza del governo delle larghe intese. E non solo in maniera astratta la collaborazione con il Pdl dell’odiato (o quanto meno denigrato) Silvio Berlusconi (anche se una conferma della condanna da parte della Suprema Corte, se non avrà riflessi sul governo come auspicato anche da Quirinale, metterà in imbarazzo i giustizialismi striscianti nel Pd dopo anni di collaborazione con il dipietrismo). Ma per qualche atto ed elemento di fatto che dovrebbe indurre a riflessione.

Vogliamo iniziare dalla questione Imu? Ormai è nota: il Pd, pur di dar vita al governo di servizio nazionale su impulso di Giorgio Napolitano, ha accettato l’abolizione (ancora tutta da definire) dell’Imu sulla prima casa che certo non era fra le priorità del Pd, che invece chiedeva al massima una rimodulazione.

Ma c’è dell’altro. Sono passate quasi in silenzio (in estate è spesso così) le misure che restringono il fumo di sigarette volute in particolare dal ministero della Salute retto ora da Beatrice Lorenzin (Pdl) con il plauso del premier in persona. Misure che qualche dirigente del Pd, a taccuino chiuso, definisce proibizioniste, paternaliste, se non autoritarie. D’altronde sui quotidiani considerati vicini alla sinistra non si sono letti commenti critici sulle misure, mentre il Giornale per la penna del vicedirettore Nicola Porro ha redarguito garbatamente ma fermamente il Pdl che si vanta ancora di connotarsi e definirsi come liberale per norme e restrizioni che secondo Porro sono poco liberali.

Magari ci si sbaglierà, ma se il Pd non fosse stato al governo di sicuro avrebbe usato fuoco e fiamme per incenerire le misure volute da Lorenzin.

La sinistra governativa deve anche assistere alla campagna mediatica a difesa della Costituzione e contro lo stravolgimento della Carta avviata dal Fatto Quotidiano per denigrare il percorso riformatore (o da controriforma, secondo il Fatto e non solo) avviato dai partiti che sostengono l’esecutivo di larghe intese. Così come in ambienti di certo non antagonisti del Pd alberga qualche perplessità sul fatto che il ministero dell’Economia sia quasi stato sub-appaltato all’istituto centrale di via Nazionale, mostrando quella che sul quotidiano l’Unità Massimo Mucchetti, senatore del Pd, ha definito tempo fa la “subalternità” di una parte del Pd nei confronti della Banca d’Italia.

Sono alcuni degli effetti indesiderati di collaborare con il Pdl e con i tanto vituperati “tecnici” o “banchieri centrali” che erano prevedibili fin dall’inizio dell’esperienza del governo Letta.

Ma la condivisione di atti, metodi e riforme segna un punto di non ritorno per il Pd. Forse solo il sindaco di Firenze potrà cambiare connotati al Pd governativo e delle larghe intese.

Forse.



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