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Basta Berlusconi, parliamo di come salvare l’Italia grazie alla Cdp

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione dell’autore il commento di Massimo Mucchetti uscito ieri sul quotidiano l’Unità

Pesano di più le ansie dell’intera classe politica sul destino di Silvio Berlusconi o le questioni normative poste dalla Cassa depositi e prestiti con il suo nuovo piano triennale? Per un direttore di giornale la risposta è scontata. La condanna penale del leader del centro-destra viene prima, e a ragione. Si tratta del funzionamento stesso della democrazia. Ma la parte finale della parabola berlusconiana induce anche a chiederci che cosa adesso attende l’Italia. E allora il caso della Cassa depositi e prestiti (Cdp) assume valenze esemplari. E sul domani di questo Paese dice di più – molto di più – di quanto ci possa mai dire il tramonto dell’attuale leader del centro-destra.

Sospensione della battaglia politica sull’idea di Paese
L’ingombrante presenza di una personalità above the average come quella di Berlusconi, angelica o demoniaca a seconda delle sacre commedie, ha fin qui giustificato la sostanziale sospensione della battaglia politica sull’idea di Paese ai tempi della Grande Crisi. In tale sospensione si sono formate le attuali classi dirigenti. Forse anche per questo, adesso, i politici tendono a fare i giornalisti, a discettare tutto il tempo se Sua Emittenza sia o non sia candidabile, eleggibile o compatibile con il mandato parlamentare in base a fedina penale e attività economiche. Come se tutto il resto, al pari dell’intendenza napoleonica, fosse destinato a seguire. Ma quel “resto”, che è formato dalla persistente recessione e dalla prospettiva di una ripresa senza lavoro, potrebbe non seguire una politica debole, perché troppo presa dai suoi affari interni quale ormai è diventato il caso Berlusconi, almeno agli occhi di chi vive fuori dal Palazzo.

Il punto cruciale è il ruolo dello Stato nell’economia. Se debba essere minimo e limitato alla mera regolazione, nel presupposto che l’attivismo pubblico genera mostri, o se debba tornare ad avere un ruolo propulsivo, avendo constatato che pure il mercato porta al sonno della ragione con le conseguenze che già Goya disegno nel 1797. Il dilemma non è nuovo. Riappare ogni 30-40 anni. Roosevelt, Reagan, Obama. Ma ogni volta riappare in termini diversi perché tecnologia, demografia, geopolitica, struttura imprenditoriale e sociale cambiano con il tempo. E dunque, ogni volta, la distinzione tra Destra e Sinistra va ripensata, verificata e non di rado riscritta. Un esercizio scomodo che, nell’Italia del 2013, avrebbe, per entrambi i campi politici, l’effetto collaterale di dover revisionare i rapporti con gli altri centri del pensiero e della politica economica, a cominciare dalla Banca d’Italia, e con gli altri centri del potere economico e finanziario, a cominciare dalle grandi banche, essendo venute meno le imprese Paese come la Fiat. Forse per questo, dopo aver tante volte sentito i politici di ogni colore proclamare che dopo il crac Lehman nulla sarebbe rimasto come prima, dobbiamo constatare che quasi tutto è rimasto uguale nelle strutture del potere finanziario globale e tale sembra dover continuare a essere leggendo i programmi.

La crisi italiana e la Cassa depositi e prestiti
L’Italia riformista del 1993 credeva che il riequilibrio della finanza pubblica, gravata allora da un debito pari al 124% del PIL, e il rilancio del sistema delle imprese passassero dallo smantellamento dello Stato imprenditore. L’eroe di quel pensiero fu Nino Andreatta, padre spirituale del nostro premier, Enrico Letta. L’Italia del 2013, che ha liquidato l’Iri e ridotto a fornitori di valore per l’azionista l’Eni e l’Enel, si ritrova con un debito pubblico pari al 130% del PIL, un sistema della grande impresa più debole e una recessione più pesante rispetto a quella media europea. Chissà che cosa direbbe Andreatta, oggi. Ora, in questo quadro cristallizzato dalla debolezza dei maggiori gruppi industriali e bancari e dall’afasica incertezza della politica sul ruolo dello Stato, la Cdp propone un piano industriale che si prefigge interventi per 80 miliardi nel triennio 2013-’15. Una cifra ragguardevole, che potrebbe salire a quota 95 miliardi se il legislatore rimuovesse alcuni vincoli che frenano le possibili iniziative nel credito, nel sostegno alle esportazioni e nelle attività immobiliari. E tuttavia le cifre dicono e non dicono.

La Cdp, in realtà, potrebbe fare molto di più. Se ne avesse il mandato. E l’idea di un piano B, che aggiungerebbe risorse per 15 miliardi a legislazione modificata, proprio questo suggerisce. E con ciò, oggettivamente, lancia una sfida al suo azionista di controllo, e cioè allo Stato. Perché 15 miliardi in più e non 50? Perché, per stare alle cronache, si parla della partecipazione di Cdp nella rete fissa di Telecom e non in Telecom Italia tout court? Nella sua intervista a questo giornale, il presidente della Cdp, Franco Bassasini, si è limitato a dire che sul tavolo c’è la rete, non l’azienda Telecom nel suo complesso. Non poteva dire altro, dato il ruolo. Ma in Italia c’è qualcuno che, dopo aver recitato le solite litanie sul nanismo delle imprese italiane, si preoccupa della triste fine della madre di tutte le privatizzazioni quando faticherà a servire il debito fatto dai privati o tutti aspettiamo che arrivi un Carlos Slim a trarci d’impaccio, e questa volta non ci sarà più un Prodi di mezzo?

Cdp, tra contraddizioni e possibilità
La Cdp, dunque. Intendiamoci, la Cdp è una costruzione della politica. Non solo l’antica Cassa sabauda, copiata dalla Caisse de Depots, ma anche e soprattutto l’attuale Cdp SPA, lanciata da Giulio Tremonti e da Giuseppe Guzzetti. Ma è una costruzione ancora piena di contraddizioni. Il suo raggio d’azione è sulla carta smisurato. Il piano triennale ne è una prova brillante nel credito, nelle cartolarizzazioni, nell’housing sociale, nel sostegno all’equity delle piccole e medie imprese, nel finanziamento e nell’assicurazione dell’export. Questo piano, sia detto di passata, costituisce una sfida al settore finanziario privato, finora timoroso o forse incapace di esprimere qualcosa di diverso dallo schema impostato negli ultimi 15 anni e ormai, evidentemente, inferiore alle nuove attese. E però, complici leggi e statuti, a questa Cdp manca il respiro per arrivare a turare le falle del mercato laddove il mercato, nella specifica realtà italiana, si dimostra insufficiente alle necessità del Paese.

La Cdp è sulla buona strada per diventare un nuovo IMI, ma con i vincoli attuali non sarà mai una nuova, vera holding di partecipazioni. So bene che evocare l’IRI sa di bestemmia per tanti benpensanti, incuranti dell’industria italiana, e per questo mi verrebbe tanta voglia di farlo. Ma vorrei rimanere alla Cdp. Non ha senso stabilire soglie minime generalizzate agli investimenti del Fondo strategico se non legandole ai diversi settori. Se questo Fondo non va sotto i 50 milioni, vuol dire che non aiuterà mai a costruire una grande catena alberghiera italiana partendo dalla realtà che è quella di un Paese che ha solo mini catene per avendo più del doppio dei posti letto della Spagna. Non ha senso proibire investimenti in aziende in difficoltà. Ansaldo Sts era da chiudere e adesso è un gioiello per merito di Finmeccanica e Fs. Il ciclo industriale non sempre segue la stessa logica del private equity. Ancor meno senso hanno gli equivoci fin qui ascoltati sui tetti alle partecipazioni, che dovrebbero essere di minoranza perché a sostegno di un imprenditore. E se l’imprenditore non c’è ma c’è l’impresa? Dovremo sempre consegnare l’Avio di turno alle General Electric del momento che non hanno nemmeno loro l’imprenditore essendo public company? Si legge in qualche nota a pie’ di pagina del piano che sarebbero consentite eccezioni. Senza chiedere (ma sarebbe istruttivo) come mai finora niente ha costituito un’eccezione degna, diciamo al management di osare e, se del caso, di sfidare il governo e, aggiungo, il parlamento, che sulla Cdp esercita funzioni di sorveglianza.

Per quanto Economist faccia scrivere il contrario a economisti italiani trasferiti in America, il problema principale non è il nanismo delle piccole e medie imprese, alle quali va assicurato il credito e l’ambiente adatto, ma la fragilità delle grandi, sia pubbliche che private, in un sistema che, anche in seguito alle privatizzazioni, ha disimparato a gestire la complessità e si è illuso di diventare una piccola City mentre era e può ancora essere una grande Manchester.


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