Skip to main content

L’Italia di Mediobanca vista dal Financial Times

La crisi dell’eurozona mette a dura prova anche le certezze più affidabili: la forza dei salotti buoni italiani e degli intrecci di quote, nomine e rappresentanze che hanno legato e sorretto dal dopoguerra la finanza del Paese, nel bene e nel male. Ma, come sottolinea in un editoriale Rachel Sanderson sul Financial Times, il rinnovamento delle governance e l’addio a partecipazioni non strategiche per permettere alle società di concentrarsi sul loro core business ed evitare di finire schiacciati dai competitor internazionali mostrano già i loro frutti.

La rete dei salotti buoni

“Le società italiane – si spiega nell’analisi intitolata ‘No way back‘, senza via di ritorno – sono legate da una ragnatela di interessi e molti manager sono riusciti a strisciare da un’impresa all’altra. Ma nell’ultimo periodo questa strategia che ha retto la finanza italiana sin dal dopoguerra sembra essere giunta al capolinea. Sotto la pressione degli investitori, Generali e Mediobanca si sono impegnati ad uscire da partecipazioni non strategiche, e cioè da quei salotti buoni da intendere come sistema di influenze e legami che hanno interconnesso nel tempo le grandi società italiane, e che spaziano da giornali, televisioni, assicurazioni, banche, telecomunicazioni, aeroporti e hotel”.

Un baluardo contro criminalità, assenza di potere e concorrenza straniera

“Non lo si fa certo perché si vuole un mondo migliore, ma solo perché non ci sono più soldi. Le cose stanno cambiando, e all’italiana, cioè in modo brutale. C’è sangue dappertutto”, ha detto al Financial Times uno dei più vecchi banchieri italiani, anonimo. Negli anni Cinquanta, molte società settentrionali hanno concepito il sistema del salotto buono come linea di difesa, temendo la mancanza di potere e i tentacoli della criminalità da Roma in giù. “Ma queste partecipazioni intrecciate che inizialmente venivano viste come baluardo contro attacchi anche stranieri sono ora il tallone d’Achille della finanza italiana. Nel 2011, quando la crisi dell’eurozona ha portato il Paese sull’orlo della bancarotta e le azioni bancarie hanno perso il 90% del loro valore, il gruppo al comando ha capito che il suo tempo era finito. Quelle partecipazioni intrecciate erano diventate le vene attraverso cui si allargava il contagio e le dinastie come gli Agnelli di Fiat hanno deciso che era il caso di interromperle, non potendo più permettersele”, prosegue il quotidiano della City.

Cuccia, Agnelli, Pesenti, Ligresti. Tutti i big

I patti orchestrati da Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca, permettevano a poche famiglie come gli Agnelli, i Pesenti, i Pirelli, e Ligresti e poi i Benetton, di controllare la finanza italiana, l’industria e i media anche attraverso piccole quote. Il suo potere ha reso nel tempo Mediobanca la Goldman Sachs italiana, la maggiore azionista di Generali, di Telecom Italia, di Rcs Mediagroup, e di altri colossi come Pirelli. Ma dal picco della crisi nel 2007 sono andati in fumo oltre 300 miliardi di euro. “E’ la fine del “ti nomino perché sei mio amico e del tu compri le mie azioni perché ti ho votato’”, ha spiegato Davide Serra, ad del fondo Algebris. “Questa mentalità è stata come un cancro che ha colpito politica, economia, burocrazia e giustizia, e le imprese stanno ora reagendo perché non hanno scelta”.

Il nuovo corso di Mediobanca e Generali

Alberto Nagel, 48enne ad di Mediobanca, e Mario Greco, 54enne alla guida di Generali, si sono impegnati a voltare pagina. Se Greco ha promesso di concentrarsi sul settore assicurativo in Asia, Nagel intende cedere la quota di Mediobanca in Generali e in Telecom Italia, società su cui sono puntati ora gli occhi. Mediobanca, Intesa Sanpaolo, Generali e il gruppo spagnolo Telefonica sono le società presenti in Telco, la holding che possiede il 22,4% del colosso delle tlc.

Le acquisizioni straniere

Ma nonostante i pericoli dei salotti buoni, i manager credono che lo smantellamento di queste reti possano indebolire le società italiane. Solo in pochi si aspettano una politica industriale chiara da Roma, obiettivo su cui i governi continuano a fallire uno dietro l’altro. E le acquisizioni straniere di gruppi italiani sono ormai numerose, avendo coinvolto solo negli ultimi cinque anni nomi del lusso come Loro Piana, Pomellato, Bulgari, Brioni, Valentino, Parmalat, Findus Italy, Marazzi, Ducati e Bertolli. “Bisogna decidersi: o l’Italia diventa come la Francia, e allora ci sono priorità industriali strategiche chiare, o come il Regno Unito, dove domina il mercato ma con regole precise sulla governante. L’alternativa è diventare come il selvaggio West”, ha detto un manager di una delle maggiori società italiane.

L’esempio di Salini-Impregilo

“Ma intanto – evidenzia Sanderson – sono in molti a credere negli effetti positivi della fine dei salotti buoni. Il costruttore romano Pietro Salini ha fondato la sua carriera fuori dalle reti del potere, ma è riuscito ad aggiudicarsi il gruppo rivale Impregilo vincendo una battaglia difficile contro Gavio, Benetton e Ligresti, appoggiati da Mediobanca“. Salini ha sottolineato che un’operazione simile non sarebbe stata possibile già solo cinque anni fa. Ma i tempi stanno cambiando. “Non c’era nulla da modificare finché c’era ricchezza nel Paese. Ma ora non ci sono più reti pronte a salvare qualcuno per i suoi errori”, ha concluso.



×

Iscriviti alla newsletter