Questa analisi è stata pubblicata ieri sul quotidiano l’Unità
Enrico Letta ha dichiarato sospese le trattative per la cessione di Ansaldo Energia da parte di Finmeccanica. La cosa suscita un dubbio e impone un approfondimento. Il dubbio riguarda la forma. Il premier ha parlato ai sindacati liguri in una pausa della Festa nazionale democratica in corso a Genova. Essendo Finmeccanica una società quotata in Borsa, sarebbe stato meglio se questo orientamento fosse stato anticipato ai rappresentanti del ministero dell’Economia nel consiglio di amministrazione di Finmeccanica e, per il tramite della holding, al consiglio di Ansaldo Energia. Questo esige il buon governo societario.
Palazzo Chigi ha tutto il diritto di fermare Finmeccanica, intendiamoci. E’ l’azionista di controllo, sia pure attraverso una semplice maggioranza relativa. Certo, i piani di Finmeccanica erano pubblici da tempo. Con le recenti nomine, che hanno portato alla presidenza della società il prefetto De Gennaro, il premier avrebbe potuto far presente i suoi nuovi orientamenti, se li aveva. E invece, a pochi giorni dall’annuncio del bond dei coreani per finanziare l’acquisto del 55% di Ansaldo Energia e delle indiscrezioni sull’interesse di General Electric per le due Ansaldo ferroviarie, ecco la sorpresa di Genova.
I teorici della corporate governance si chiederanno adesso con chi debbano parlare gli investitori italiani e internazionali quando approcciano le società a partecipazione statale. Con i manager o con il governo? L’ideale sarebbe il rapporto con manager che abbiano la piena e costante copertura del governo azionista. Il quale, per poter dare una simile copertura, dovrebbe poter seguire le politiche dell’impresa con tempestività in proprio o attraverso tecnostrutture di sua fiducia. Questo in Italia non accade, per tante ragioni che risalgono agli anni Novanta. Di fatto, il governo spesso non è in grado di dire che cosa vuole dalle sue partecipazioni. Ma di quando in quando esce con statement dal tono francese come quelli dell’altro ieri. Sarebbe augurabile che, oltre al tono, ci fosse anche una sostanza alla francese. La radice andreattiana del premier farebbe dubitare. Il suo richiamo alla politica industriale, fatto nell’occasione solenne del discorso di insediamento del governo, farebbe invece sperare. E così veniamo al merito, all’urgenza di un approfondimento.
Ora, la strada imboccata da Finmeccanica non è il Vangelo. Vendere Ansaldo Energia ai coreani (ammesso che i tedeschi non si ripresentino con offerte migliori) o Ansaldo Sts e Ansaldo Breda agli americani non è la soluzione migliore sul piano delle filiere industriali complesse di questo Paese. Nessuno ci assicura che, com’è già accaduto alla ThyssenKrupp o alla Glaxo, alla Telettra-Alcatel o alla Lucchini-Severstal, il nuovo imprenditore estero non sprema l’impianto italiano, talvolta si prenda le tecnologie e poi comunque se ne vada in base a logiche sovranazionali. E tuttavia, nella latitanza dell’azionista, una Finmeccanica costretta a contare solo sulle sue forze oggi non può che separarsi dal gruppo Ansaldo per il bene suo e del gruppo Ansaldo medesimo. Non ci sono abbastanza soldi per tutti. Pensare di vendere la partecipazione nell’americana Drs o quotare Agusta Westland per convogliare i ricavi di queste operazioni (che certo non sarebbero ottimi di questi tempi) al rifinanziamento del sistema Ansaldo toglierebbe risorse alla Finmeccanica e ne ingesserebbe la flessibilità operativa con i nuovi obblighi verso i mercati in capo alla sua impresa regina. In Finmeccanica, l’Italia ha eccellenze da sviluppare e non da comprimere. E deve poter disporre dei suoi attivi del settore difesa e spazio, dove ampia è peraltro la quota civile, per poter partecipare da protagonista alla grande riorganizzazione internazionale del settore, partita con il tentativo di fusione tra Eads e Bae Systems. Il gruppo Ansaldo, dal canto suo, può diventare l’Alstom italiana se adeguatamente ricapitalizzato e, dove serve, rinnovato nel management e nei rapporti con il mercato interno. Se ad Ansaldo Energia possono bastare il finanziamento delle nuove turbine e una partnership con soggetti esteri capaci di estendere la sua quota di mercato, per l’Ansaldo Sts, ottima ma piccola a questo stadio di riconcentrazione del business, e per Ansaldo Breda, in cronica perdita e in deficit storico di investimenti, va progettato un piano più impegnativo. Da Finmeccanica, a saldo delle sue antiche responsabilità di holding, sarebbe equo pretendere una congrua dote che paghi come minimo i costi di ristrutturazione. Ma il futuro dipenderà dal rapporto con le Fs, specialmente nella preparazione di un nuovo treno per il trasporto locale che riscatti la reputazione ferita del costruttore nazionale. E poi dal rapporto tra Trenitalia e le Regioni, stazioni appaltanti dei collegamenti locali.
In Italia c’è una corrente di pensiero che vorrebbe lasciare al loro destino queste aziende nella convinzione che ne sorgerebbero altre. La realtà è che le start up hanno una dinamica di nascita e sviluppo che prescinde dal destino di questi marchi, talvolta gloriosi e tal’altra meno, ma che sono i capi senza eredi di filiere importanti. Se le dichiarazioni alla francese di Letta non sono un tributo demagogico alla Superba ma sono il prologo di una nuova politica industriale, sarà cruciale anche il ruolo del governo e del parlamento nel verso la nuova Autorità dei Trasporti e l’Antitrust. E, ancor più, quello della Cassa depositi e prestiti quale perno della politica industriale. A patto che se ne chiarisca la missione, ricordando come nel 2005, l’Alstom fosse fallita e non avesse chiuso solo perché lo Stato francese attivò la domanda interna e versò 3,5 miliardi senza svenare le aziende della difesa e dello spazio. Oggi Alstom e la Sncf, con Italo, fanno concorrenza (in perdita) al Frecciarossa, mentre il mercato francese è precluso a Fs. Investono sul lungo periodo. La Francia, su questi fronti, è un grande Paese. L’Italia ha le dimensioni di mercato per diventarlo.