Questo secondo lavoro di Antonio Rinaldi sull’euro, forse è meglio dire sulla possibilità che la vecchia Europa potesse e possa diventare nuova con le istituzioni comunitarie a cui ha dato vita, è rivolto ancora a un grande pubblico di cui coglie gli umori, li elabora sul piano analitico, e ne trae conseguenze politiche tenendo conto della base storica su cui le istituzioni europee trovano fondamento. Un lavoro complesso, quindi, ma non privo di efficacia comunicativa.
La destinazione del lavoro indica la forte vocazione civile dell’autore che non si prefigge di controbattere le litanie pro euro e pro Europa dei tanti colleghi, né si preoccupa delle loro inevitabili reazioni ai suoi non radi sovrattoni, ma quello di educare i suoi concittadini a chiedere ciò che è giusto che essi chiedano alla politica, con argomenti appropriati e non strillando in piazza o abbandonandosi all’idea che occorra spaccare tutto per rigenerarsi. Per lui ciò che è giusto chiedere è un’Europa che dia vita a un’istituzione politica tra quelle conosciute dove la Germania non ripeta i suoi errori di imporre il “pensiero unico” (che è poi il “pensiero vecchio”, quello di Walter Funk) che gli altri paesi accettano troppo passivamente, con l’Italia in testa.
Rinaldi ritiene che il nostro Paese non deve dimostrare che è tanto bravo nel rispettare i parametri di Maastricht perché, se anche lo fosse (ma ben sa che non lo è), continua a coltivare all’ombra dell’Unione Europea i suoi vecchi vizi di uno statalismo inefficiente e di un mercato simile a una farsa, ma di fatto una vera tragedia [qui, a onor del vero, il sovrattono è mio].
L’analisi rispecchia il dibattito di un’Unione Europea che oscilla tra la speranza che l’intera costruzione e l’euro in particolare possano essere riformati per ovviare alla sua decadenza economica misurata in relazione alle altre grandi aree del Pianeta. Egli respinge l’idea che si possa uscire dalla crisi permettendo agli organi dell’Unione di ingerirsi nelle scelte nazionali di politica fiscale nazionali, nell’assunto indimostrato che si siano conquistati sul mercato del buongoverno i galloni di superiorità rispetto ai paesi membri, ignorando la natura monetaria non ottimale dell’euroarea. Le basi delle scelte fatte nel 1992 con il Trattato di Maastricht, quelle contenute nel Rapporto Delors curato dal nostro connazionale Cecchini, si sono mostrate evanescenti e le scelte successive fino all’altrettanto celebre fiscal compact sono una conferma che errare è umano, ma perseverare è diabolico.
Dall’analisi di Antonio Rinaldi emerge abbastanza chiaramente che la Banca Centrale Europea partecipa a una competizione mondiale dove il gioco si fa sempre più duro in condizioni di handicap istituzionale e secondo una visione della sua azione limitata alla stabilità dei prezzi; a che le politiche di coesione sono orientate da un solidarismo volto a compensare le asimmetrie nascenti dai divari strutturali di produttività, invece di prefiggersi di rimuoverli, secondo una politica abbondantemente sperimentata nella sua fallacia nel Mezzogiorno d’Italia. Il dubbio più forte che emerge dall’incalzare dell’analisi è che ciò possa avvenire perché gli egoismi nazionali sono troppo forti. Forse è stato già superato il punto del non ritorno, ossia che la creazione europea – l’organismo biogiuridico a cui si è dato vita, per dirla à la Guarino – non sia più sanabile.
Tramutato nel linguaggio da me proposto e da altri usato, anche internazionalmente, per coltivare la speranza di sconfiggere gli egoismi nazionali occorre avere un Piano A composto da due parti: ciò che va corretto a livello comunitario e ciò che deve essere fatto a livello nazionale, per poi battersi sul piano politico per avere l’uno e l’altro. Per affrontare una eventuale condizione di non sanabilità significa invece preparare un Piano B di uscita dall’euro e, ove necessario, dal mercato comune europeo, rinunciando all’idea che l’attuale costruzione europea sia irreversibile e che il problema consista nell’addentrarsi sempre più in un meccanismo economico-politico che ci fa perdere le conquiste raggiunte nel dopoguerra e ci tramuta in una colonia europea; l’accettazione di questo status contrasta con la Costituzione italiana e su questo punto Rinaldi è giustamente inflessibile: i governanti sono tenuti a rispettarla e non possono accettare che il sistema evolva in direzione di una perdita di sovranità e conseguente decadenza. Invero il lavoro esamina anche la possibilità e gli effetti di un Piano D (sarebbe C, se l’A. non avesse scelto la prima lettera del termine tedesco Deutschland), in cui si ipotizza che sia la Germania a uscire dall’euro. La conclusione è che sarebbe miope da parte sua farlo, ma renderebbe possibile realizzare le riforme istituzionali necessarie per il rinnovamento della vecchia Europa.
Non è facile prevedere come andrà a finire con l’euro e l’Europa unita, ma ricorrendo ai vantaggi propri del metodo deduttivo possiamo avanzare l’ipotesi che, se l’Unione Europea non si riforma muovendo verso un’unificazione politica vera e propria, essa prima o dopo si spacca o, se sopravvive monca, i singoli paesi in difficoltà resistono e per essi sarà il degrado. Perciò chiunque conduca una battaglia per un completamento della costruzione europea, con argomenti forti o deboli, con sovrattoni o sottotoni, invece di tacere o mascherare la realtà con paure del futuro se si affronta drasticamente la situazione, merita rispetto.
Paolo Savona
Professore emerito di Politica economica
La locandina della presentazione