La nascita di Telco nel 2007 è stata un pasticcio. La sua fine è un altro pasticcio anche se da tempo annunciato. Tutto si svolge in un passaggio di azioni dentro il patto di sindacato. E gli altri azionisti, quelli che hanno l’80% dei titoli Telecom? Per loro solo sberleffi. Dunque, i vecchi vizi non finiscono mai. Speriamo che almeno finisca il vizio anch’esso antico di cercare un salvatore pubblico o un’altra operazione di sistema tipo Telco, Alitalia o Ansaldo (almeno sulla base di quel che si sta discutendo oggi).
L’idea di un salvataggio via Cassa depositi e prestiti non si regge in piedi. Solo per non evitare il downgrading di Telecom ci vogliono tre miliardi, più o meno quelli che la Cdp può investire oggi. Per rilanciare la compagnia ce ne vogliono 15. Non solo. La Cassa non ha le competenze per gestire imprese, tanto meno grandi gruppi. Non è una nuova Iri e non potrà mai diventarlo.
Si dice che le sorelle francesi e tedesche hanno pacchetti chiave in France Télécom e Deutsche Telekom. Vero, ma hanno una funzione complementare e c’è un abisso tra il valore dei campioni nazionali d’oltralpe e quello italiano. Purtroppo. Ma è così. La matrigna di tutte le privatizzazioni non poteva che partorire mostri. Teniamo conto, inoltre, che questo è solo l’inizio. Al gran ballo delle telecomunicazioni in Europa ne resteranno ben pochi.
Quel che il governo può fare non è molto, tuttavia è più importante che alzare retoricamente il tricolore. Innanzitutto deve salvaguardare i piccoli azionisti ancora una volta turlupinati. La Consob dov’è?
Bisogna dire ad Alierta, il boss di Telefonica, che l’Italia ha bisogno di una buona rete a banda larga. E’ disposto a investire? Come e quando? Altrimenti si apra un negoziato per trovare una soluzione alternativa. Questo è interesse nazionale, degli utenti e dei cittadini. Il resto, sia lasciato al mercato che è un sistema imperfetto, ma non ne è stato finora trovato uno migliore per combinare i fattori della produzione e allocare le risorse.
Stefano Cingolani