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Alitalia e Telecom, monumenti all’incapacità dei manager

Mentre il presidente del Consiglio Enrico Letta è all’estero per vantare le virtù di “Destinazione Italia” (cinquanta capsule di aspirina mentre l’ammalato ha urgente bisogno del chirurgo), due tra le poche grandi imprese italiane prendono la strada dell’estero, finendo sotto il definitivo controllo straniero.

Una, Telecom Italia, lo ha già fatto senza curarsi di informare il proprio presidente Esecutivo (che ne dovrebbe trarre le conseguenze). La seconda è in procinto di farlo nonostante le preci e gli ammonenti del responsabile economico del “socio di maggioranza” del governo. Dovrebbe anche lui trarne conseguenze dato che il proprio padre (presidente del gruppo in uscita) non lo ascolta (come usano fare i genitori anziani nei confronti di figli che ritengono maturi).

Se non fossero in ballo il futuro dell’industria manifatturiera italiana (che, secondo i più recenti dati dell’Eurostat, ha perso il 20% della propria capacità produttiva nell’ultimo lustro) e migliaia di posti di lavoro (in un contesto in cui il saggio di disoccupazione è già al 12% della forza lavoro), si potrebbe dire che siamo alle prese con un genere di teatro in musica tipicamente italiano il dramma giocoso.

Vorrei precisare che da economista e da liberale, a me non interessa se la proprietà di un’impresa sia italiana o straniera purché i livelli di produttività e di competitività siano elevati e la qualità del servizio ai più alti standard mondiali. Mi preoccupa, però, la de-industrializzazione dell’Italia in quanto Paese privo di agricoltura concorrenziale ed i cui servizi sono antiquati ed a basso livello di tecnologia.

Tutti i commentatori stanno discettando in questi giorni su come ridurre il danno (ad esempio, scorporando la rete Telecom o mantenendo un hub aeroportuale a Roma). Pochi si chiedono quale sono le determinanti di fondo degli avvenimenti di questi giorni.

Utile a riguardo è leggere i ritratti in un’opera in più volumi, i primi due sono usciti in questi giorni (CIRIEC Protagonisti dell’intervento pubblico in Italia prefazione di Antonio Maccanico Introduzione di Luciano Cafagna, Aragno Editore) che, casualmente, proprio il 26 settembre, sono stati presentati nella Sala delle Colonne di uno degli edifici sotto il controllo della Camera dei Deputati. I ritratti riguardano il passato e sono basati in gran parte su documenti dell’archivio Iri, raramente studiato (nonostante sia disponibile presso l’Archivio dello Stato).

Il quadro che ne risulta è che l’intervento pubblico nell’economia nato come conseguenza della crisi degli Anni Trenta sarebbe dovuto essere temporaneo. Quando il Governo dell’epoca propose ai maggiori industriali italiani di privatizzare le imprese risanate, non trovò nessun acquirente, sempre che la bolletta (della denazionalizzazione) non fosse stata pagata dallo Stato medesimo. Il capitalismo italiano era non soltanto “senza capitali” ma anche senza “manager”.

Gli uffici a Roma del Piano Marshall non capendo, sulle prime, cosa fosse l’Iri (e pensando che si trattasse di uno strumento figlio di un’ideologia), conclusero – sulla base di una relazione di Donato Menichella e soprattutto di rapporti riservati di Viktor Sullam, Hollis Chenery, Vera Lutz e Gisèle Podbielski – che le partecipazioni statali erano l’equivalente “all’italiana” delle public companies anglosassone, con proprietà diffusa ma management scelto su principi meritocratici, mentre il “capitalismo senza capitali” era privo di capacità imprenditoriali e si passava lo scettro da padre in figlio, perdendo pezzi ad ogni passaggio.

Ben sappiamo come il sistema Iri sia degenerato dalla metà degli Anni Cinquanta e che, anche ove fosse rimasto di grande qualità, sarebbe stato incompatibile con un mercato aperto e con l’integrazione economica internazionale. Occorre, però, chiedersi se al di là degli errori delle singole privatizzazioni (e le vicende di Telecom ed Alitalia ne mostrano molteplici), l’Italia non solo ha difficoltà a selezionare il ceto politico ma ne ha anche a selezionare quello imprenditoriale e manageriale per le maggiori imprese. E’ un problema degli italiani in Italia non all’estero: i due Senior Vice President della maggiore impresa mondiale – General Electrics – si chiamano Mastrangelo e Sollecito – non certo nomi anglosassoni o nordici.

Quindi, offriamo al resto del mondo una “Destinazione Italia” prima di avere un ben articolato diritto dell’economia ed un sistema giudiziario con un minimo di efficienza e dopo aver avviato verso l’estero chi ha capacità imprenditoriale e manageriale per tenerci cortigiani privi dell’essenza del mestiere di imprenditore e di manager.

In giro per il mondo, il presidente del Consiglio dovrebbe riflettere su “chi ha Giocondo i scritto in fronte”. Proprio come nel concertato con cui si chiude il primo atto del dramma giocoso Il Barbiere di Siviglia.



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