Lo shutdown, che è scattato all’inizio di ottobre con la chiusura di settori importanti della pubblica amministrazione, è la più evidente dimostrazione della patologica crisi sistemica dell’economia e della finanza degli Stati Uniti. Il governo di Washington guidato da Barack Obama è senza soldi in quanto ha utilizzato tutte le disponibilità di bilancio approvate dal Congresso.
Per continuare con l’attuale ritmo di spesa previsto, dovrebbe sfondare il tetto del debito pubblico prestabilito. Come è noto, ogni anno e da tempo, si ripete lo sfondamento del limite massimo del debito, un’operazione che richiede però l’approvazione del potere legislativo. Nel frattempo oltre 800 mila dipendenti federali che lavorano in alcuni settori amministrativi, nella gestione del territorio e dei parchi e perfino nel settore spaziale e dell’intelligence sono da giorni a casa e senza stipendio.
Naturalmente la sospensione dal lavoro di centinaia di migliaia di impiegati comporta una perdita di reddito pari a circa 200 milioni di dollari al giorno che inevitabilmente genera una riduzione dei consumi mettendo in crisi anche settori del commercio.
Il blocco da parte dell’amministrazione pubblica dei pagamenti colpisce anche le imprese appaltatrici di opere e servizi pubblici e i relativi fornitori. Certi effetti sociali cominciano a farsi sentire pesantemente. Per esempio, è bloccato il programma di aiuti alimentari previsto per ben 9 milioni di mamme e bambini bisognosi. Questa situazione mette oggettivamente in discussione anche la scelta più qualificante dell’Amministrazione Obama che è la riforma sanitaria aperta a tutti i cittadini.
Lo shutdown fa giustizia dell’ottimismo diffuso sulla presunta ripresa economica americana tanto sbandierata nei mesi passati, anche per quanto riguarda la nuova occupazione. Infatti secondo uno studio Gallup, dal novembre 2012 a settembre 2013 negli Usa l’occupazione dipendente a tempo pieno è passata dal 46,1% al 43,5%.
Sono cresciute, quindi, soltanto le varie forme di sottoccupazione e di lavoro precario. Adesso la data cruciale è il 17 di ottobre quando lo sfondamento del tetto del debito diventerà inevitabile altrimenti la disponibilità giornaliera di risorse utilizzabili passerà da 60 a 30 miliardi di dollari. Se ciò accadesse gli Usa non sarebbero più capaci di onorare gli interessi sul loro debito pubblico. Sarebbe il default, la bancarotta degli Stati Uniti, che si accompagnerebbe ad un collasso del dollaro, ad una grave crisi occupazionale e ad una impennata dei tassi di interesse con riverberi globali.
I Treasury bond sono considerati come l’ultimo e più sicuro rifugio finanziario da parte dei risparmiatori americani e degli investitori internazionali. Il Tesoro americano ammonisce perciò che il default provocherebbe una crisi finanziaria peggiore di quella del settembre 2008. Il fatto che la borsa di Wall Street non abbia risentito molto degli effetti dello shutdown dimostra la diffusa convinzione che presto il governo e il Congresso raggiungeranno l’intesa su un significativo sfondamento del tetto del debito pubblico. Attualmente esso è di 16,7 trilioni di dollari.
In soli tre anni è aumentato di quasi 3,5 trilioni! Si sottolinea che ben 5,1 trilioni di tale debito sono detenuti da fondi sovrani e da altre entità finanziarie non americane. La Cina ne possiede 1,315 trilioni di dollari ed il Giappone 1,111 trilioni.
Lo scontro politico negli Usa è quindi tutto giocato sul ricatto: o bancarotta o aumento del debito pubblico. È doveroso sottolineare che non siamo di fronte ad una politica keynesiana da parte di Washington che giustificherebbe la crescita del debito pubblico e il contestuale aumento degli investimenti per uscire dalla recessione. Purtroppo non è così.
La gran parte del debito pubblico è servita per le operazioni di salvataggio e di sostegno del sistema bancario. Altrimenti come si spiega che, mentre lo Stato chiude e rischia il default, le grandi banche americane festeggiano per i loro più alti profitti della storia?
Mario Lettieri e Paolo Raimondi
*Sottosegretario all’Economia del governo Prodi **Economista