Pubblichiamo un’analisi di Francesco Galietti apparsa ieri sul quotidiano il Foglio diretto da Giuliano Ferrara
Nella scansione di tempi che ha preceduto la diffusione delle regole e dei criteri con cui la BCE valuterà i bilanci di 130 banche comunitarie non c’è spazio per il caso. La lettera di Draghi ad Almunia – una epistola segreta prontamente rivelata da una fuga di notizie chirurgica – ne è la riprova. Stando al quotidiano Repubblica, autrice dello scoop, Draghi teme che imporre ora perdite sui bond, potenzialmente per decine di banche europee allo stesso tempo, possa destabilizzare i mercati”. Le regole sul “bail-in”, che prevedono che possessori di bond bancari debbano condividere le perdite in caso di fallimento di una banca prima che possano essere erogati fondi pubblici, dovrebbero entrare in vigore nel 2018 e fanno parte del progetto per unificare la supervisione e il sostegno agli istituti di credito della zona euro. Il testo vergato da Draghi insisterebbe sulla doverosità della previsione dell’ammissibilità di interventi pubblici per le capitalizzazioni.
Difficile credere che Draghi si sia fatto di colpo sostenitore dell’intervento statale, più probabile che la lettera sia dettata da considerazioni di tipo pragmatico. È plausibile, poi, che il suo monito vada letto come un invito alla gradualità per evitare che intrecci di potere da cui dipendono da anni interi Stati membri vengano gestiti con la delicatezza di un meccano germanico. La gradualità, dunque, come rimedio alla tassatività delle scadenze: ecco il messaggio che Draghi lancia non a caso proprio ad Almunia. Proprio lo spagnolo, un mese e mezzo fa, si era infatti reso protagonista di un brusco richiamo alle istituzioni italiane all’abituale ritrovo post-estivo di Cernobbio. In quell’occasione, l’intervento a piedi uniti di Almunia sul dossier MontePaschi, per giunta effettuato in pubblico e non in camera caritatis come da galateo bancario, era suonato come uno sgradevole ultimatum.
Vale inoltre la pena di sgomberare il campo dall’idea che l’Italia detenga la palma del primato negativo di interventi statali a sostegno delle banche private. Almeno in questo caso, sembra trattarsi di un cimento in cui sembrano molto più portati i tecnici del governo tedesco – l’Italia ha speso per interventi di sostegno a banche in difficoltà meno di tutti i partner dell’Unione (lo 0,1% del PIL).
Nel caso dell’Italia, piuttosto, occorre tenere a mente la peculiarità dell’architettura banco-finanziaria di casa nostra, e il rapporto simbiotico che lo Stato e le banche hanno sviluppato nel corso di interi decenni. Con la crisi dell’Eurozona sta infatti crepandosi l’ultima grande barriera eretta a protezione dei palazzi romani, la poderosa architettura banco-statale che da venti anni a questa parte segrega ermeticamente la massa in crescita del nostro debito sovrano garantendone l’assorbimento da parte delle principali banche domestiche, a loro volta controllate dalle fondazioni bancarie che surrogano la ricerca del consenso politico sul territorio. Le fondazioni italiane hanno infatti svolto una funzione di cerniera in una vera e propria architettura circolare, che vede il debito pubblico ampiamente sostenuto da banche domestiche – gli ultimi dati parlano di 400 miliardi in pancia agli istituti italiani – a loro volta controllate dalle fondazioni. A questo si aggiunge il fatto che il finanziamento delle aziende passa essenzialmente dal sistema creditizio anziché dalle borse, elemento che a sua volta spiega l’attuale spinta governativa ai nuovi strumenti per le PMI italiane (credit funds e mini-bond) alternativi ai canali bancari e in grado di attrarre investitori istituzionali stranieri.
Il versante che merita grande attenzione è dunque quello delle fondazioni bancarie, oggetto nel recente passato di un monito insolitamente duro e diretto da parte del Governatore Bankitalia, Ignazio Visco, in occasione dell’assemblea annuale dell’ABI. Intervenendo davanti alla platea bancaria, Visco ha richiamato i meriti passati delle fondazioni, per poi esortarle senza mezzi termini a diversificare i propri investimenti, allentando la presa sulle banche e facendo spazio a nuovi soci. In attesa del 30 ottobre, quando gli osservatori potranno leggere in controluce le parole di Ignazio Visco e del Ministro dell’Economia alla giornata del risparmio organizzata dall’ ACRI – la lobby delle fondazioni bancarie – resta l’impressione di una partita di sistema. Una partita in cui la cristalleria è delicata, e la pretesa di gradualità e pragmatismo è non solo legittima ma doverosa.