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Che cosa penso di Mediobanca, Telecom e Cdp. Parla Geronzi

È stato presidente del Banco di Roma, Capitalia, quindi Mediobanca e poi di Generali. Cattolico e romano, durante l’esercizio del suo grande potere, è stato guardato con diffidente rispetto da quegli esponenti laici e meneghini generalmente presi a modello di virtù dai grandi giornali. Quando si consumò la sua defenestrazione dalla compagnia triestina, non mancava chi brindava alla fine di un’epopea. I fatti si sono incaricati di fare beffa di molti di quei brindisi. Geronzi è rimasto presidente della fondazione Generali e dal terrazzo del suo ufficio, oltre ad ammirare la sconfinata bellezza di una città non casualmente eterna, può permettersi di guardare ai fatti di cronaca di questi mesi con sereno distacco. La discrezione, si sa, è una categoria propria del potere.

Iniziamo con un’immagine che ha accompagnato il giornalismo negli ultimi dieci anni, i cosiddetti poteri forti. Secondo Lei, sono davvero esistiti i poteri forti?

Se lei ricomprende i poteri forti nel limitato periodo dei dieci anni, le rispondo con molta facilità: non esistono poteri forti quantomeno nel settore finanziario e nel più definito contesto bancario. Allo stesso modo, non mi pare che si possano individuare poteri forti nel settore delle imprese. Nell’ultimo decennio si è abusato del termine “poteri forti”. In passato sono esistiti invece centri di potere, espressione forse più corretta di quella abusata di “poteri forti”. Anche con riferimento a questi, si deve segnalare lo sfaldamento che poi è avvenuto. Perché sono cambiati gli uomini, certo, ma anche le condizioni della vita politica e di quella sociale: è cambiata la collocazione dell’Italia in Europa e nel resto del mondo.

Quelli che Lei chiama centri di potere un ruolo storico lo hanno avuto

Innanzitutto, quando esistevano questi centri di potere vi erano condizioni del mercato e della politica completamente diverse ri-spetto a quelle di oggi. Il momento del gran-de conflitto tra industria pubblica e privata e fra banche pubbliche e banche private creava le condizioni per un dibattito molto fecondo all’interno del quale c’era chi sosteneva, anche politicamente, il primato della nazionalità delle industrie e delle banche e chi riteneva che fosse giunto il momento per avviare un processo di privatizzazioni, conseguenza anche dello sviluppo non dico politico, ma certamente economico della cosiddetta Europa unita. È stato un periodo importante nel quale il dibattito è stato acceso, ma molto interessante. Ha messo in mostra la qualità degli uomini, non soltanto di quelli operanti nel settore finanziario- bancario-imprenditoriale, ma anche un livello di uomini politici che allora guarda-vano al futuro, si domandavano cioè dove avremmo dovuto essere tra 10-20 anni. Oggi si vive il giorno per giorno, e lo si vive nel modo peggiore.

Allora il luogo centrale e di equilibrio nel processo di privatizzazione era via Filodrammatici a Milano

Qui entra in ballo il centro di potere o il cosiddetto potere forte-Mediobanca e il grande dibattito sulla salvaguardia dell’impresa privata dalla voracità dell’impresa pubblica. O comunque dalla grande concorrenza che il “pubblico” esercitava nei confronti del privato. In quell’epoca Mediobanca ha svolto un ruolo storicamente rilevante. Allora esistevano uomini come Cuccia, Mattioli, La Malfa, Malagodi. Gente che studiava e poi decideva per un verso o per l’altro ma dopo aver valutato con attenzione non soltanto quali sarebbero stati i risultati dell’intervento sull’attività del “privato”, ma come questa avrebbe potuto conciliarsi con l’interesse pubblico.

Quella Mediobanca è finita per sempre?

Il sistema all’interno del quale l’istituto si è trovato ad operare è profondamente cambia-to. In tempi successivi si è cercato di conservare la centralità di Mediobanca, ma senza Cuccia non poteva esserci: era Cuccia, come persona, ad essere ritenuto il potere forte per antonomasia perché in lui si riconosceva una superiorità tecnico-intellettuale che poteva condurre alla composizione di ver-tenze finanziarie e al superamento di difficoltà che altrimenti non si sarebbero potute affrontare efficacemente. Se poi ci si chiede se gli interventi che furono fatti da quella Mediobanca-centro di potere sono stati posi-tivi, allora tutti hanno il diritto di sollevare dubbi e perplessità. Qualcuno si domanda: esiste un’azienda in difficoltà sottoposta alle cure di Mediobanca che alla fine si sia salvata? Ecco, coloro che pongono la domanda diffidano e hanno sempre diffidato di questa funzione-guida da parte di Mediobanca. Oggi, finita la “tricefalia” dell’istituto (merchant bank, holding di partecipazioni e istituto di credito speciale), si tratta di delineare nuove architetture istituzionali, nuove strategie, nuova operatività. È un passaggio cruciale, da affrontare in un contesto di par condicio e di forte concorrenzialità. Sono, questi, i cimenti dai quali può derivare il giudizio sui manager.

Tornando alla dinamica non sempre facile tra industria pubblica e privata, negli ultimi dieci anni, vi è stato un soggetto che ha provato a svolgere un ruolo di cuscinetto fra le istanze diverse del paese: le fondazioni di origine bancaria.

Nel tempo, il ruolo svolto dalle fondazioni sulla stabilità del sistema bancario è stato molto positivo; poi le cose sono cambiate. Le fondazioni, fruendo di grandi disponibilità derivanti dai bilanci floridi dalle banche, hanno pensato di dare a se stesse una sostanza diversa: le trasformazioni in questa direzione non sono state positive, almeno per come le valuto io. Siamo arrivati alle partecipazioni in società e attività di diversa natura, lontane da quello che era il disegno di coloro che avevano concepito questi enti. Le crisi bancarie hanno impoverito le fondazioni e le hanno rese meno adeguate a continuare a sostenere la stabilizzazione del sistema bancario e la sua ricapitalizzazione. Di qui l’esigenza di meditare sull’opportunità che le fondazioni, che ancora lo detengono, mantengano il controllo degli istituti. Si veda il caso di Mps o comunque il cosiddetto controllo cumulato (nel caso di Intesa sono plurime le fondazioni che partecipano al capitale, e la pluralità di queste fondazioni può creare difficoltà nella gestione e nel governo dell’azienda). Sotto questo profilo si vagheggia di un cambiamento di tipologia della governance ed è il segno di qualcosa che non funziona più. Una riflessione e una rivisita-zione normativa appaiono essenziali.

Cosa non ha funzionato?

Il governo di una banca complessa suscita molte valutazioni. Quando il mercato è flori-do, tutto tiene. Le fondazioni sono sottoposte a delle autorità di controllo e bisogna vedere quanto possa aver giovato l’intervento o il non intervento delle autorità. Autorizzare una fondazione a indebitarsi per mantenere il controllo di una banca, per esempio Mps, è stato un errore gravissimo. Denunciarlo significa prenderne atto, per non ripetere quell’errore.

Adesso la presenza delle fondazioni sembra essere orientata a valorizzare la partecipazione strategica in Cassa depositi e prestiti. È questa la strada maestra per loro e per l’economia italiana?

Da tutte le iniziative finora promosse dalla Cdp si è riuscito a capire qual è l’obiettivo che si è data? Come si configura la Cdp? Cosa deve fare, quale è l’attività che deve svolgere e a quali fini? È scritto da qualche parte tutto questo oppure, avendo disponibilità di capitali cospicui, affronta il caso per caso con l’aiuto, il suggerimento e la collaborazione di questa o quella società che, di volta in volta, è portatrice di capacità organizzative o di suggerimenti finanziari? Ha un percorso che è stato stabilito che debba seguire? Oppure si può interessare un giorno di Telecom e un altro giorno di Alitalia? Qual è il metodo? Se è stato definito, dove è scritto? E chi ne verifica la corretta attuazione? Queste sono domande che dobbiamo porci: non sono una critica, ma un invito a definire adeguatamente il ruolo dell’istituzione. Finora abbiamo visto che è stata utile anche per meglio governare il debito pubblico. Ma adesso cosa deve fare? Nei giornali si parla con pressappochismo di una nuova Iri. Sono tutte cose che alimentano confusione.

Cdp è divenuta un gigante. per fortuna, il suo presidente Franco Bassanini è garanzia di equilibrio

Rilevo una contraddizione. Lo Stato deve costruire l’istituzione, i contorni giuridico- istituzionali, lo scopo e le normative necessarie. Solo dopo sceglie la persona migliore che ha. Se il prescelto dovesse non corrispondere alle aspettative, anche per condizioni di mercato, lo cambia. Cioè, è l’azienda lo scopo dello Stato, la scelta del più bravo viene dopo.

Torniamo ai poteri forti. La coppia Marchionne-Elkann può far presagire un rilancio di Fiat come centro di potere?

Quel centro di potere in Italia portava i nomi di Cesare Romiti ed Enrico Cuccia. Agnelli era l’uomo che conferiva dignità a tutto e aveva uno charme che pretendeva rispetto. Allora erano Cesare Romiti e Mediobanca che, con il gioco delle partecipazioni, davano le carte. Quel gioco è finito quando il giovane Agnelli, in una riunione del proprio consiglio, ha detto che non esiste più un patto di sindacato ma un patto di consultazione. Con la fine dei patti di sindacato iniziò il processo di distacco della Fiat da Mediobanca.

Ancora Mediobanca…
Quando, a seguito dell’acquisto del Banco di Roma, entrammo nel consiglio di Medio-banca, Il Banco era portatore del 7% circa del capitale. Cuccia, volendoci ricevere, ci disse con carineria che Mediobanca viveva su Fiat, Montedison e Generali. In che modo? Basta rileggere le relazioni di bilancio. Oggi sono rimaste le Generali, ma, per fortuna, lì è entrato chi ha mosso le acque limacciose. Ora c’è un ad che ha l’obiettivo dell’indipendenza, dell’efficienza e dell’efficacia, non per fare quello che vuole lui, per sé o per i suoi, ma per fare il bene dell’azienda. Recenti cronache evidenziano come fossero privi di ogni fondamento gli elogi che qualche giornale rivolse a manager della Compagnia poi cessati. Verrà mai un’autocritica? Nulla è più come prima. L’evoluzione, i tempi, le norme (vedi Basilea 3) e gli uomini hanno finito per determinare un più ristretto perimetro per Mediobanca e bisogna che il management faccia attenzione a cambiare anche le proprie impostazioni.

È vero, secondo Lei, che il nostro è un Paese sotto assedio da capitali stranieri o è una scusa per giustificare la nostra incapacità?

Sotto assedio? Scusi, ma Letta è andato all’e-stero a magnificare la bontà dei prodotti italiani e del sistema-impresa italiano per sollecitare investimenti o sbaglio? Li vogliamo o non li vogliamo? Se è lui a dire ciò, signi-fica che li vogliamo. Certo, è un’aspirazione, ma se non dai loro un contesto istituzionale, giuridico, di sicurezza, amministrativo, del-la giustizia, diventa difficile attrarre investi-menti. Al proposito, i centri di potere oggi esistono, ma in luoghi diversi. Sono nella Pa, nella giustizia che non ha, in alcuni settori, la preparazione adeguata per le sue decisioni.

Il patriottismo economico è un valore o un disvalore?

Telecom tedesca è dello Stato. Di fronte al crollo bancario, gli inglesi hanno nazionalizzato. Con la crisi, Obama ha varato un robusto piano di stimoli pubblici. Il patriottismo, se mancano regole adeguate, par condicio, e concorrenzialità, e pretende di affermarsi al di fuori dei settori di fondamentale rilevanza strategica, può essere un disvalore. Se, “al contrario”, le predette condizioni sono osservate non dobbiamo stigmatizzare l’intervento politico.

(L’intervista integrale a Cesare Geronzi sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista Formiche)


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