Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il cameo di Riccardo Ruggeri apparso sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.
È curioso, decido di scrivere sulla «mia» Torino proprio il giorno dei morti. Il Sindaco Piero Fassino è a New York, con delegazione d’alto profilo, per illustrare un sogno, quello di diventare «città della cultura», non solo «industriale» ma in senso lato. Sono stati convertiti dieci milioni di metri quadrati di aree industriali in «spazi» destinati all’arte, alla cultura, alla ricerca artistica. Chissà se a questi, un giorno, si aggiungeranno quelli impagabili della Fiat Mirafiori, mi immagino la centrale termica, col fumaiolo spento, molto più svettante di quella della Tate.
Quelle aree allora erano piene di vita, i pavimenti in legno erano lucidi, a perdita d’occhio si vedevano filari di torni, frese-alesatrici, trapani, broccatrici, lappatrici. Dietro ognuna, un uomo o una donna con tute blu, lise dagli infiniti lavaggi, nella pausa pranzo si mangiava il minestrone caldo del barachin, poi la frittata, e si poteva finalmente parlare.
Noi non lo sapevamo ma stavamo facendo il Pil, con sofferenza stavano partorendo il miracolo economico italiano, figlio solo nostro. Indimenticabile, e indimenticato l’odore dell’officina, un mix complesso: olii e grassi industriali, sfridi di ferro, fumi, vasche di cataforesi, aliti pesanti, sudori acidi. L’odore della vita.
Ora, dopo le splendide ristrutturazioni per trasformarle in spazi museali, sono diventati non luoghi, a me paiono delle morgue, dove persone distratte tra i tanti cadaveri cercano quello che più li stuzzica, sotto l’occhio attento del coroner in divisa. Chiederò all’amico Alessandro Albert, inarrivabile artista della fotografia torinese, specializzato in foto di cadaveri, di accompagnarmi nella visita, per potervi cogliere appieno tutte le nuance di questo mondo, che fonde passato e futuro, una specie di catena di montaggio di serigrafie, stile The Factory.
Intanto in Times Square, non lontano dal mitico 33 di Union Square West di Andy Warhol, in 30 secondi, scorrono le immagini di una Torino virtuale, «Gran Torino the city of contemporary art». Quante cose sono successe da quando la lasciai all’inizio degli anni ’90, era appena morta mia mamma, avevo deciso di trasferire il Quartier Generale di New Holland a Londra (curiosamente l’Avvocato e Romiti acconsentirono, era la prima volta), incominciavo una nuova vita. Mai avrei immaginato che la città della mia infanzia, concepita per fare innovazione e prodotti industriali, ambisse a diventare un museo a cielo aperto, e che di questa trasformazione se ne sarebbero interessati quelli che alla domenica pomeriggio, al Comunale, contornavano l’Avvocato, si alzavano all’unisono quando la Juve segnava, o fingevano di essere affranti se segnava l’avversario.
Sapendo quante energie e intelligenza ha dedicato alla politica, provo per Piero Fassino una sincera simpatia per il compito che la storia gli ha assegnato: fare da badante a una Torino avviata pare verso l’ospizio, sia pure quello elegante delle vedove-nubili del primo novecento. Vivendo all’estero, ero rimasto alle partite a scopone scientifico fra Marchionne e Chiamparino, ove i più informati sostenevano si parlasse di Torino come Quartier Generale (pardon, Headquarter) della nuova Fiat-Chrysler e «cervello mondiale» dell’auto, traboccante stilisti, ricercatori, progettisti, tecnologi, markettari.
Si percepiva tanto entusiasmo, si parlava di 6 milioni di auto che si sarebbero vendute ogni anno, si parlava della Cina, dell’India, della Russia, degli Stati Uniti invasi dalle 500 e dalle Alfa, a botte di 400 mila all’anno. Eravamo tutti in adorazione, come fossimo alla Consolata, dei 20 miliardi che sarebbero stati investiti in Fabbrica Italia, Marchionne era il nuovo Valletta, però molto più alla mano, col democratico maglioncino in luogo del doppio petto gessato da padrone delle ferriere del professore.
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