Non è questione da poco la netta presa di distanza di Prodi dal Pd con una motivazione secca e inequivocabile: “Non era quello il mio disegno politico”. Ancora più lapidaria l’aggiunta: “Forze di ogni tipo mi hanno ostacolato”. In queste due frasi è condensata la storia politica d’Italia di quasi un quarantennio, non di un solo ventennio scarso, quello che ha visto il professore reggiano due volte sugli altari, due volte nella polvere sempre a causa di fuoco amico.
Si potrà discutere all’infinito sulla rabbia e il livore vendicativo di Prodi: anche se essi fossero due componenti caratteristiche del suo carattere, non aiuterebbero comunque a capire di cosa si sta parlando. Ha ragione Romano (e chi per lui) a sottolineare che “no, è tutto più complesso”. È esattamente la complessità di quanto è insorto nel movimento cattolico italiano dopo il rapimento, l’agonia e l’assassinio di Aldo Moro, che va riletta compiutamente. Non cominciando dal tiro mancino che Prodi ha subito nell’ultima battaglia presidenziale; e invece tornando a quando l’uomo di Scandiano fece i suoi primi passi partendo a razzo come ministro dell’industria.
LE ORIGINI DA TECNICO
Prodi non è nato democristiano, come i suoi genitori. Al più ebbe ascendenze dossettiane e verosimilmente anche lazzatiane, cioè protestatarie e sistematicamente critiche verso il partito degasperiano. Nacque e crebbe da tecnico: non prestato alla politica; ma chiamato dai politici pragmatici (Andreotti) ad occuparsi di un econometrismo estremamente concreto e utile per dominare nel complesso mondo delle categorie socioeconomiche che tenevano bordone al partito di governo per eccellenza, la Dc, non credendo nelle idee e nel ruolo storico di quel partito; e standosene anzi separate.
Certo, Prodi fu lanciato nella politica nazionale da quella esperienza ministeriale e, soprattutto dal convegno di studi di Perugia, che lo vide come relatore “estraneo, politicamente non engagé, autonomo. Dal punto di vista accademico, ciò gli faceva onore. Nelle istituzioni economiche fece un rapido balzo in avanti, passando direttamente da ministro a presidente dell’Iri; perché era un tecnico protetto da un politico che sapeva di economia: Beniamino Andreatta.
“UN CATTOLICO ADULTO”
In quella fase, lunga e non priva di episodi discutibili (per esempio concernenti la Sme), Prodi fece il divulgatore economico televisivo nel monopolio pubblico. Piaceva per il suo eloquio semplice, apparentemente comprensibile; anche se gli economisti accreditati non se ne compiacevano. Piacque a Riccardo Misasi; non però a Ciriaco De Mita, il segretario della Dc. E, forse anche a causa di tale differenza (che si sostanziava di diffidenza), Prodi si tenne costantemente agganciato alla borghesia cattolica milanese e bresciana, dominata da cardinali di peso: sempre rivendicando le sue origini periferiche; quasi a contrapporre, da “cattolico adulto” com’egli si autodefinì, il locale al nazionale, Reggio a Roma, il particulare all’universale, il parroco al papa. Prodi fu amico e sodale di Mino Martinazzoli, l’affossatore della Democrazia cristiana. Non fu democristiano, e quindi nemmeno un democristiano di sinistra, anche se restò sempre amico di Giovanni Bazoli e di Gingio Rognoni. Riuscì a schivare le strettoie del manipulitismo grazie alla protezione che gli diede dal Quirinale Oscar Luigi Scalfaro. Che stravedeva per lui e gli fu di enorme aiuto nello spianargli la strada delle elezioni anticipate dopo aver battuto non eroicamente Silvio Berlusconi in strane consultazioni.
Dunque Prodi è stato sì un postdemocristiano; ma non in quanto ex militante scudocrociato, bensì perché venuto dopo la Dc: quando il partito fondato da De Gasperi era stato cancellato per pressione dei procuratori d’assalto, incapacità di visione politica di Martinazzoli e maneggi quirinaleschi di Scalfaro coi leghisti bossiani.
L’ULIVO CON PARISI
Di qui iniziò la storia prodiana più nota: quella che lo vide, in stretto e convinto contatto con Arturo Parisi, per dare vita alla loro creatura, l’Ulivo: una coalizione postideologica e, assieme, multideologica, meticcia a causa di troppi e molto contrastanti padri putativi. Cioè un progetto ambizioso, che prendeva a modello il partito democratico americano; ne sposava le tecniche di base (le primarie); si proponeva come una forza di centro-sinistra riformatrice, bipolarista, antiproporzionalista; lasciava intuire il fascino del presidenzialismo (senza pretenderlo); coniugava il moralismo con il giustizialismo d’appartenenza (anche se non si parlò mai di elezione popolare dei giudici); dava per acquisita la democraticità dei postcomunisti, purché sul principio di una egemonia cattolica, non marxista e di marca progressista.
Come si vede, il passato prodiano è complicato. E sarà interessante conoscere le spiegazioni che Prodi (o suoi portavoce) vorrà dare circa le “forze d’ogni tipo” che lo hanno ostacolato. Non solo il febbraio scorso; cioè quando in effetti il Pd immaginato da Prodi non si era realizzato e fu dileggiosamente bruciato, venendo sostituito da un sinistracentro burocratico e sindacalistico, nel quale la confusione delle lingue è stupefacente e di questioni serie non c’è rimasta neppure l’ombra.