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Vi spiego perché le privatizzazioni alla Letta non mi entusiasmano

Pochi elogi, molte critiche. Le reazioni raccolte finora da Formiche.net tra esperti, economisti e politici sul piano di privatizzazioni annunciato dal governo Letta oscillano fra nette contrarietà (l’economista Giulio Sapelli), forti perplessità (il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi) e aperture (l’economista Riccardo Gallo).

Ecco l’opinione di Andrea Tavecchio, commercialista milanese, promotore insieme ad altri professionisti e imprenditori della società che edita il sito Linkiesta ed editorialista del quotidiano Il Foglio. Un liberale atipico e pragmatico secondo noi di Formiche.net. Iniziamo la conversazione.

Come valuta il piano annunciato da Letta e Saccomanni?

Se si guarda al nostro debito pubblico pari al 130% del prodotto interno lordo, al 90% nel Regno Unito ed in Francia e intorno al 85% in Germania e Spagna, viene da pensare che forse bisogna fare qualcosa di più forte e che la strada di vendere pezzi d’argenteria pregiata – tipo il tre virgola qualcosa di Eni – non è una manovra sufficiente. Bisogna fare qualcosa di più radicale che dia un segnale forte ai mercati, alle famiglie ed alle imprese. Bisogna tornare a crescere ridando fiducia alle famiglie ed alle imprese. Il resto è nulla.

Quali sono i reali obiettivi del piano del governo? Ridurre il deficit, il debito o rassicurare Bruxelles per avere l’auspicata flessibilità nella spesa per gli investimenti?

Partiamo dai numeri. Il tasso di disoccupazione nell’area euro negli ultimi tre anni (novembre 2010-novembre 2013) è passato dal 10,1% al 12,2 e in Italia nello stesso periodo la disoccupazione è cresciuta del 50% passando dall’8,3% al 12,5%. Il 2013 si chiuderà, inoltre, con un prodotto industriale lordo in calo nell’area euro, come già nel 2012. Si è spesso paragonata l’ultima Grande Recessione alla famosa Grande Depressione del 1929. In realtà le due crisi hanno avuto una dinamica assai differente, con una caduta del prodotto più pronunciata nel 1929 seguita però da una ripresa più robusta. A sei anni dall’inizio delle due crisi, per molti paesi il recupero nel prodotto è però simile. L’ultima crisi si sta purtroppo protraendo con una dinamica di crescita nella fase di ripresa molto insoddisfacente. Tornando alla manovra io non so quali siamo i reali obiettivi ma forse bisognerebbe partire dai “reali numeri”.

Ma le privatizzazioni non dovrebbero avere un disegno strategico? Lei lo scorge nel piano del governo?

Certo, partendo dal presupposto che il privato può fare meglio in alcuni campi, ma non tutti. Il pubblico ha un ruolo importante e deve tornare a mobilitare risorse quando strategici ma non interessanti per un privato perché a ritorno troppo lungo o incerto. Come è stato quando si sono costruite le grandi reti nel dopoguerra. La stagione pubblica del dopoguerra, insieme ad alcuni errori, ha creato delle reti (telefonica, energetica, autostradale ad esempio) che poi si è venduto – molto spesso male – a partire dagli anni 90’ con grande successo. La vecchia Iri non era il male assoluto. Anzi in molti casi è stata più coraggioso e visionario dei privati. Un esempio su tutti la vecchia Stet.

Siamo proprio sicuri che gli incassi derivanti dalle dismissioni di quote di aziende a controllo pubblico siano maggiori dei minori dividendi assicurati dalle stesse società?

Nel caso di Eni certamente si ed in più stiamo parlando di noccioline che non sono in grado di dare nessun concreto risultato per risolvere il vero problema dell’Italia e dell’Europa. Sembriamo un continente, momentaneamente salvato da Mario Draghi, sull’orlo della classica spirale più disoccupazione, meno consumi ed investimenti, meno crescita, più debito.

Le privatizzazioni come si conciliano con la necessità avvertita da Cdp, non solo per la sollecitazioni di Bankitalia, a ripatrimonializzarsi?

Anche su questo ci vorrebbe più chiarezza e meno paura ad affrontare il tema in Europa di come finanziare gli investimenti considerati strategici fuori dai vincoli di bilancio che ci siamo imposti. In Italia poi bisognerebbe cambiare lo statuto del Fondo Strategico Italiano (FSI) dobbiamo poter avere a disposizione un fondo, promosso dallo Stato, che abbia un orizzonte temporale di lungo periodo. Adesso è un fondo (tra l’altro ben gestito) ma che casi fa più o meno lo stesso lavoro dei fondi di private equity. Che FSI faccia cose diverse altrimenti vanno benissimo i fondi di private equity. Il pubblico faccia il pubblico.

Se lei fosse il ministro dell’Economia che cosa farebbe per trovare risorse necessarie per abbattere il debito visto che comunque gli impegni previsti dal Fiscal Compact dovranno essere rispettati per ridurre lo stock del debito?

Bisognerebbe fare fronte comune con Francia e Spagna e far capire alla Germania che anche se la loro bilancia dei pagamenti è passata negli ultimi tre anni da un attivo di 182 miliardi di euro a 247 miliardi non significa che tutto va bene. Primo perché il continente europeo, loro principale sbocco commerciale, si sta impoverendo e secondo perché la bilancia dei pagamenti non dipende solo da quanto esporti ed importi ma anche da quanto risparmi ed investi. Se la gente è spaventata risparmia di più ed investe di meno e la bilancia dei pagamenti migliora. Ma non è un bel segnale.

Bisognerebbe convincere la Germania…

I tedeschi devono accompagnare le riforme, anzi chiederle, ma in cambio devono far uscire l’Europa dalla spirale più debito meno crescita. Anche usando mezzi non convenzionali da definire insieme. Sembra infatti sempre più attuale la domanda del l’ex Cancelliere tedesco Helmut Schimdt su Die Ziet l’8 novembre del 1996 quando l’allora presidente della Hans Tietmeyer “La linea della Banca Centrale negli anni dal 1930 al 1932, anche a causa di una ideologia deflazionistica monomaniacale, non ci ha condotto alla rovina, a perdite immense di posti di lavoro, con conseguenze politiche gravi?”.



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