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Il futuro del lavoro

Con il suo 12,2% di disoccupati, l’Italia non è sola. A guardare statistiche e dati OCSE, gli anni della crisi – la peggiore recessione dal ‘29 – hanno lasciato il segno. Oggi, 40 milioni di persone sono senza lavoro nei paesi avanzati, altre decine di milioni sono sottoccupate o non cercano più. Allo stesso tempo, negli stessi paesi, milioni di posti di lavoro restano vacanti. L’apparente paradosso della crisi del lavoro si può spiegare solo in parte con disparità geografiche o difficoltà di incontro tra la domanda e l’offerta. Altre, e più strutturali, sono le cause di fondo.

Nel marzo del 2012, il McKinsey Global Institute decide di pubblicare, come approfondimento di una riflessione avviata a Davos, un paper sulle disfunzioni e le trasformazioni strutturali che stanno sconvolgendo la realtà del lavoro a livello globale. Come dichiara lo stesso studio, non si tratta di ricerca nuova, quanto di sistematizzare quanto già sviluppato dalla stessa McKinsey o da altri. L’assunto da cui si parte è semplice, ed è il refrain di tanta letteratura degli ultimi anni e dell’esperienza delle imprese nei paesi, a differenza dell’Italia, ancora fortemente vitali.

La fine della recessione e la ripresa della crescita non produrrà posti di lavoro sufficienti a sostituire quelli distrutti negli anni della crisi. E certo, non nelle stesse forme. Quanto avvenuto negli ultimi anni segna un punto di non ritorno, l’inizio di una nuova era tecnologica che sta trasformando irrimediabilmente la natura stessa del lavoro. A nuove tecnologie devono affiancarsi infatti saperi nuovi, nuove competenze, nuovi skill, che la forza lavoro fatica ad acquisire in tempi sufficientemente brevi da consentirne l’adattamento alle mutate condizioni. Lo stesso discorso vale anche per le strutture, l’organizzazione e il funzionamento del mercato del lavoro: parti sociali, sistemi di assicurazioni, servizi di formazione e collocamento sono rigidi e sostanzialmente inadatti alla sempre maggiore fluidità, immediatezza e responsività richiesta da economie liquide.

Il futuro del lavoro, in contraddizione aperta con la mentalità prevalente in Italia, vede un susseguirsi di rapporti a tempo, con erogazione e prestazioni di servizi in chiave professionale, e offerte di competenze specifiche e sempre più specializzate, acquisite a mano a mano, nel corso del tempo, in forma prevalentemente modulare. In un’economia digitale il lavoro sarà erogato sempre più attraverso piattaforme web, di natura cooperativa, che consentono accesso e gestione autonoma delle task e del tempo lavorato, con enormi vantaggi per il lavoratore e per l’azienda. Lo spazio ufficio si smaterializza e diventa virtuale.

L’ubiquità e la contemporaneità annullano distanze geografiche, fusi orari e la routine del full-time aziendale. Già oggi sono attive e in crescita esponenziale, aziende con modelli di business totalmente web-based, che utilizzano reti di lavoratori freelance ad elevata competenza, individuati e selezionati online attraverso i social network, che lavorano nei cinque continenti autodeterminando la gestione dei carichi di lavoro, a fronte degli accordi contrattuali. In questi sistemi, anche il compenso del lavoratore viene erogato attraverso transazioni bancarie, gestite in automatico da un software che traccia e contabilizza le ore effettivamente lavorate. Se le immagini valgono più delle parole, suggerisco la visione di un video della software house statunitense gTeam, appartenete alla holding Versata https://www.dropbox.com/s/lwbwyljzu0yq9nw/gTeamExplainer_091313_v2%20copy.mp4, fortemente evocativo e senz’altro chiarificatore.

In un modo siffatto, poco senso hanno ancora i sindacati, ad esempio, nella loro forma attuale, e le architetture di garanzie obsolete, costruite sulla base di un sistema in via di disintegrazione. A nulla varranno i sia pur strenui sforzi di conservazione in atto, se non ad aggravare la posizione degli esclusi dal lavoro, in mancanza di adeguati programmi di riqualificazione. Il problema diventa quindi come equipaggiare i nostri lavoratori delle competenze e degli strumenti necessari per affrontare il mondo che cambia.

La capacità, o di converso, l’incapacità del decisore politico, ricorda ancora il paper di McKinsey,  è allora misurata da quanto sappia far fronte – nel migliore dei casi sia in grado di precedere – gli effetti delle rivoluzioni in atto, perché assumano le forme della distruzione creativa e non della desertificazione e del depauperamento di larghe fasce della popolazione, come invece sta avvenendo in Italia. Negli ultimi decenni abbiamo già assistito a fasi cospicue di questo processo di distruzione del lavoro, nelle forme che conoscevamo.

In un primo momento, la robotica ha  consentito l’automazione di impieghi produttivi tipicamente ripetitivi, serializzabili, come nella produzione in linea. A questa prima fase, di più immediata comprensione, ha fatto seguito la contrazione massiccia di posti di lavoro nell’industria, o la delocalizzazione degli impianti verso paesi con un costo del lavoro competitivo. Ma competere sul solo costo non è una strategia vincente, né garantisce stabilità. Il sud della Cina, ad esempio, fino a qualche tempo fa meta di cospicui  investimenti produttivi, è diventato a suo volta troppo caro per le aziende manifatturiere che stanno reagendo in due modi: con delocalizzazioni ulteriori, ad esempio verso il Vietnam, o con ampi piani di “dismissione” dei lavoratori umani, sostituiti da robot. Eclatante in questo senso il caso di Foxconn, decisa ad installare un milione di macchine al posto di altrettanti operai.

In una seconda fase di trasformazione del lavoro, la rivoluzione tecnologica ha stravolto impieghi che contemplavano la raccolta e la gestione di flussi di informazioni in materie ripetitive e routinarie. La voce che risponde alle nostre telefonate al call center della carta di credito, il cassiere allo sportello della banca, l’addetto al check in aeroporto, quello alla vendita alla biglietteria della stazione, l’analista paralegale, alla ricerca dei precedenti nei sistemi di common law; nelle economie più avanzate non si tratta più di umani. Sono voci sintetiche o terminali. Software. La transizione è impercettibile, un giorno dopo l’altro, e induce assuefazione.

Fino ad oggi, sono rimasti ancora immuni dall’onda pervasiva delle nuove tecnologie distruttrici di lavoro, impieghi che richiedevano capacità complesse, di contenuti eminentemente relazionali o doti di raffinata manualità. Interazioni non prevedibili e non lineari, processi di vendita ad alta competenza e complessità, oppure servizi alla persona. Non a caso, negli Stati Uniti, il paese dove la ripresa è più evidente, hanno visto un più rapido recupero, tra le professionalità a minor intensità di conoscenza e più basso reddito, quelle nei settori della sanità, dell’educazione, dei servizi alla persona, determinando, peraltro, un fenomeno interessante dal punto di vista storico, con un aumento proporzionalmente maggiore dell’occupazione femminile rispetto a quella maschile. Tradizionalmente gli uomini sono occupati meno in questi settori.

Una terza fase, si apre invece ora e corre anche sulla marea montante dei Big Data, investendo come un tifone posizioni e compiti, impieghi e capacità che si ritenevano, fino ad oggi, appannaggio esclusivo dell’intelligenza umana. Una rivoluzione in settori lontanissimi ed inattesi, ad esempio, la trasformazione genetica che investe la professione del giornalista, contaminato nel suo DNA da competenze di programmazione, coding, raccolta ed interpretazione di dati per estrarne i macro-trend, e può scriverne o magari venderli, con creazione di contenuti media, mappe o localizzazioni. Aprendo una quantità di questioni etiche e pratiche su quale sia la natura del mestiere. Questi però, sono pensieri da sviluppare, forse, in un altro post.


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