La zona di identificazione aerea istituita dalla Cina lo scorso weekend, già violata da Usa, Giappone e Corea del Sud, sarà in cima all’agenda degli incontri in Asia orientale del vicepresidente statunitense, Joe Biden, atteso a Pechino per l’inizio della settimana.
“La visita dà l’opportunità di discutere con i politici cinesi la questione, esporre direttamente le nostre preoccupazioni e cercare di capire chiaramente le intenzioni cinesi”, ha spiegato un funzionario dell’amministrazione americana citato dal South China Morning Post.
LA ZONA AEREA
La nuova Air defense identification zone (Adiz) stabilita da Pechino è considerata destabilizzante da Washington e dai Paesi della regione. Sebbene i cinesi abbiano più volte rimarcato che l’iniziativa non è rivolta contro alcun Paese, oggi il quotidiano Global Times, ramificazione in inglese del governativo Quotidiano del popolo, titolava in un editoriale che il Giappone è il bersaglio della disputa.”Quando violerà la nuova Adiz dichiarata dalla Cina dovremo prendere contromisure tempestive contro il Giappone, senza esitare”, scrive il tabloid, spesso schierato su posizioni nazionaliste.
I PROBLEMI CON TOKIO
La zona cinese si sovrappone a quella nipponica, istituita nel 1968, e comprende anche il gruppo di isolotti conosciuti come Diaoyu dai cinesi e Senkaku in giapponese, al centro di una disputa territoriale tra i due Paesi. L’area interseca inoltre lo roccia di Socotra, contesa con Seul, che non ha mancato di far sentire le proprie rimostranze e ieri, al pari di Tokyo, ha mandato i propri aerei in volo senza rispettare le direttive di Pechino. Lo stesso avevano fatto lunedì due bombardieri B-52 di ritorno dalla base di Guam, nel Pacifico. Un’azione cui i cinesi hanno replicato con le dichiarazioni del portavoce del ministero della Difesa, che diceva di aver mantenuto la situazione sotto controllo e di aver monitorato il volo.
FORZE IN ALLERTA
Nel pomeriggio di ieri caccia dell’Esercito popolare di liberazione sono stati inviati per un “pattugliamento di controllo a scopi difensivi”. Secondo il portavoce dell’aviazione, Shen Jinke, le forze dell’aeronautica restano in massima allerta. Gli aerei cinesi hanno tutto il diritto di pattugliare l’Adiz, ha spiegato oggi il portavoce del ministero degli Esteri, Qin Gang. Il timore è che adesso Pechino possa prendere un’iniziativa simile nel Mar cinese meridionale, includendo aree contese con il Vietnam e con le Filippine.
La zona di identificazione aerea non è tuttavia né una zona di interdizione al volo né un’estensione dello spazio territoriale. I regolamenti di Pechino prevedono che gli aerei che sorvolano l’area si identifichino, diano la loro nazionalità e forniscano i piani di volo e stiano in comunicazione con i comandi a terra.
COME UN PAESE MODERNO
Come spiega Bonnie Glaser del Center for Strategic and International Studies al Los Angeles Times: pur vedendo rischi per la stabilità, “non so se sia diretta contro il Giappone, tanto quanto rappresenti la convinzione cinese che ogni Paese moderno debba avere una zona di identificazione aerea”. Peter Lee sull’Asia Times Online avanza anche un altro punto di vista: in una regione attraversata da tensioni, velivoli potenzialmente ostili dovrebbero essere identificati.
PUNTI DI VISTA
In quest’ottica, l’iniziativa cinese contribuirebbe anzi a stabilizzare la situazione. D’altronde le frizioni per il controllo delle Diaoyu – Senkaku si sono fatte più intense nell’ultimo anno, da quando il governo nipponico le rilevò dai tenutari privati evitando che ciò fosse fatto dalle frange più nazionaliste della politica giapponese. Una nazionalizzazione di fatto che scatenò in Cina manifestazioni e proteste.
L’episodio più grave si verificò quando una fregata cinese puntò il proprio radar in direzione di una nave giapponese, preludio al fuoco. Nelle ultime settimane Tokyo ha invece rimarcato di non escludere l’ipotesi di abbattere i droni di sorveglianza cinesi.
UNA VECCHIA DISPUTA
La disputa affonda radici alla fine dell’Ottocento, quando furono incorporate nel territorio nipponico. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con il trattato di San Francisco, Tokyo rinunciò a diverse rivendicazioni e le isole Nansei Shoto, di cui facevano parte, furono date agli Usa per essere restituite a Tokyo nel 1971.
La Cina dal canto suo rivendica la sovranità sulle Diaoyu, ricordando che furono territorio di pesca fin dai tempi antichi. Contesta inoltre quanto affermato nel Trattato di San Francisco, ricordando che all’epoca il governo nazionalista del Guomindang a Taiwan, guidato da Chang Kai-shek, allora considerato dagli occidentali il legale governo cinese, non sollevò la questione per non inimicarsi il sostegno statunitense.
Tutt’oggi Taipei fa parte della disputa, tornata alla ribalta con la scoperta di risorse energetiche nei fondali degli isolotti, posti in posizione strategica per il controllo delle rotte. La contesa si inserisce inoltre nella rinnovata assertività giapponese per il ritorno al governo dei liberaldemocratici guidati da Shinzo Abe, vincitore delle elezioni dello scorso dicembre. Il premier non fa mistero della volontà di rivedere la costituzione pacifista imposta al Giappone alla fine del conflitto mondiale e di emendare l’articolo 9, trasformando così le “forze di autodifesa” in un esercito vero e proprio.
LA STORIA CHE RITORNA
Posizioni mal viste nei Paesi che subirono il militarismo nipponico nella prima metà del Novecento. Oltre alle tensioni con la Cina, Tokyo non sembra voler cedere neanche nelle dispute territoriali che la vedono opposta alla Corea del Sud, contro cui potrebbe anche ricorrere all’Aja per contestare la sentenza che impone ad alcune aziende nipponiche di risarcire i sudcoreani costretti ai lavori forzati durante il periodo bellico negli anni Quaranta del secolo scorso.
IL PIVOT TO ASIA
Sullo sfondo c’è anche il rinnovato interesse statunitense per la regione. Il pivot asiatico dell’amministrazione Obama è considerato da Pechino una forma di contenimento della propria influenza. Washington sta riposizionando in Asia risorse economiche e militari, creando una cintura attorno alla Cina che va dall’arcipelago nipponico all’Australia, fino forse alla Nuova Zelanda, con cui lo scorso ottobre ha ristabilito rapporti militari bilaterali dopo oltre vent’anni.
IL RUOLO DELLE FILIPPINE
Anche il sostegno Usa alle operazioni di soccorso alle vittime del tifone Haiyan nelle Filippine avrebbe contribuito, secondo molti analisti, a mettere sotto una luce più favorevole la presenza dei soldati Usa. Prima della tragedia di Haiyan, in cui i militari Usa hanno contribuito a colmare le carenze del governo locale, i colloqui tra Washington e Manila sull’aumento dei soldati Usa di stanza nell’arcipelago erano in stallo per il timore filippino di cedere troppa sovranità acconsentendo alle richieste statunitensi. La distruzione portata da Yolanda, come il tifone è chiamato dai filippini, ha anche fatto digerire ai locali l’arrivo di mille militari giapponesi, 68 anni dopo la fine del conflitto mondiale.