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Matteo Renzi, il facilista

Con una eloquenza torrenziale, civettando coi giornalisti obbligandoli a non contraddirlo, ricorrendo all’astuzia dei mercanti fiorentini del Duecento, Matteo Renzi si è offerto all’invidiabile platea televisiva di Porta a Porta come un piacione che non è né di sinistra, né di centro, né di destra, parla il linguaggio della gente comune, presenta ricette per la complessa crisi nazionale come fossero davvero a portata di mano e facili da applicare con un pizzico di buonsenso e di spirito di volontà. Il Matteo facilista non ha connotazione politica, non rappresenta il vecchio ma neppure il nuovo che avanza. C’è in lui molta vitalità giovanilista e, assieme, parecchia saggezza contadina di provenienza etrusca: che s’ingegna se piove, si ferma a contemplare l’universo se è bel tempo.

In due ore abbondanti di solipsismi, tollerati dal conduttore perché a tratti divertenti, il principale candidato a segretario del Pd ha dato una buona immagine di sé, ha esposto un catalogo di un paio di centinaia di disfunzioni, insufficienze, eccessi, strabordante fiscalismo e sprechi dell’amministrazione pubblica, meschinità e viltà della classe politica, esosità di quella sindacale, contraddizioni pubbliche disarmanti, scempi della natura e dei beni culturali collettivi e suggerito rapidi interventi in materia istituzionale che nessun cittadino oserebbe contestare. Però il suo proporsi come uomo del domani prossimo ha rivelato che Renzi non ha davvero alcunché in comune con la storia del Pci e delle varie nomenclature postcomuniste. E soprattutto non ha alcun punto di sintonia col cattolicesimo politico degasperiano e postdegasperiano, ma semmai qualche affinità coi pragmatisti della destra clericale, che non pochi danni addusse agli italiani in tutta l’era repubblicana.

Renzi ha inteso rivolgersi agli elettori di ogni settore. Ha solo di squincio sfiorato il tema della giustizia, confermando però di dissentire dalla scelta del grosso del Pd di difendere oltre ogni logica il ministro Cancellieri per le sue implicanze a favore di un’amica arrestata. Non ha mai usato i termini autonomismo, democrazia, libertà, alleanze, che furono il distintivo della Dc che sapeva governare. Ha rilevato grande conoscenza di dettagli, rimanendo assente in tema di visione d’assieme. Si appella alla pancia e non alla mente degli elettori. È apparso invece deciso su questioni ordinamentali (legge elettorale, abolizione del senato e diminuzione del numero dei deputati e dei consiglieri regionali), che in verità solo dei causidici possono pensare di continuare a sostenere impunemente.

Però Renzi un modello di società lo ha indicato, rispolverando la teoria del Sindaco d’Italia, una generazione fa illustrata e magnificata da sognatori come Enzo Bianco, Massimo Cacciari e Mario Segni, col sostegno finanziario e mediatico di Gianni Agnelli, Indro Montanelli e l’establishment economico-finanziario-proprietario con protezioni internazionali. Quel modello di governo è francesista e presidenzialista, come lo è il doppio turno per eleggere un capo con poteri paraplebiscitari. Lo impose il generale De Gaulle alla Francia dei partiti, sconvolgendoli. Non attecchì in Italia, malgrado l’uninominale e la preferenza unica, non per un minore valore di quelle personalità (tutte peraltro provenienti dal mondo della politica), ma per il semplice motivo che l’Italia è e resta un paese pluralista. Che, pur rimanendo corporativo, perde progressivamente l’antico condizionamento di sindacati che ormai rappresentano prevalentemente pensio¬nati e non blocchi sociali produttivi.

Su un punto, non marginale, Renzi è apparso più deciso dei gruppo dirigente del Pd e dello stesso governo Letta: sulla improrogabile necessità che l’Italia smetta di piegarsi alla burocrazia mercantile bruxellese e riacquisti un minimo di dignità nazionale: Ma in questo passo traspare più un’inclinazione ad un nazionalismo destrorso demagogico che un segno di riappropriazione di una sovranità che non ci può essere sottratta imponendoci vincoli obbligatori da paese coloniale.


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