Con Sandro Fontana è morto non solo un altro pezzo di pregio della storia della Dc e della cosiddetta prima Repubblica, ma anche un animatore discreto e intelligente della seconda.
Forte fu, in particolare, il contributo di Sandro Fontana, con Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella, alla nascita del Centro Cristiano Democratico, di cui assunse anche la presidenza, e all’alleanza elettorale e politica con la prima Forza Italia di Silvio Berlusconi, nel 1994. Un’alleanza della quale egli rimase convinto anche quando Casini preferì uscirne e tentare la formazione, attorno all’Udc, di un terzo polo destinato a rimanere soltanto o poco più di un progetto, anche nelle elezioni politiche di fine febbraio scorso, nonostante l’apporto di Mario Monti. Ma di questi ultimi sviluppi delle ambizioni di un terzo polo centrista Fontana non ce la fece ad essere neppure testimone critico o disincantato per le ferite inferte alla sua integrità fisica da una “grave malattia affrontata con dignità e forza”, secondo l’espressione usata all’annuncio della morte da Casini.
Fontana contribuì alla nascita e al consolidamento del primo polo di centrodestra con lo stesso entusiasmo, solo apparentemente contraddittorio, dell’azione svolta tanti anni prima nella Dc, accanto a Carlo Donat-Cattin e agli altri amici di “Forze Nuove”, per il passaggio dal centrismo al centrosinistra. Un entusiasmo condito di una cultura federalista e di un radicamento sociale che egli mise a disposizione di Berlusconi fra il 2000 e il 2001, dietro le quinte, per la ripresa dell’alleanza con la Lega di Umberto Bossi, dopo la rottura consumatasi alla fine del 1994. Ciò rese probabilmente Fontana inviso ai suoi vecchi amici democristiani, che invece vedevano nel rapporto con la Lega un elemento di pericolosa destabilizzazione del centrodestra. E arrivarono a tradurre la loro insoddisfazione, quando se ne verificarono le circostanze politiche, in un boicottaggio della candidatura di Fontana a presidente della Rai. Fu un passaggio particolarmente amaro per lui, pur abituato alla durezze della lotta politica, sperimentate fuori e dentro la sua Dc, e la sua stessa corrente. Dove gli era capitato, fra l’altro, di mancare la successione a Donat-Cattin, quando morì il leader di Forze Nuove, a vantaggio di Franco Marini.
A lungo professore di storia contemporanea all’Università della sua Brescia, Fontana aveva voluto studiare, denunciare e insegnare negli ultimi anni – di questa storia – “le grandi menzogne”. Così volle anche chiamare un suo fortunatissimo e documentatissimo libro. “Grandi menzogne” fra le quali si trovano fatti e passaggi da lui vissuti come testimone. Per esempio, la rappresentazione di Aldo Moro, fattane dopo la tragica morte da Eugenio Scalfari con una intervista postuma, come di un uomo che aveva programmato un’alleanza di governo fra la Dc e il Pci, e non solo una tregua parlamentare e politica, quale fu invece l’intesa che fra il 1976 e il 1978 consentì ai comunisti di sostenere dall’esterno un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti.
Fu “grande menzogna”, secondo la testimonianza di Fontana, anche la “sorpresa” manifestata nel 1993 dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per motivare il rifiuto di firmare un decreto legge varato dal governo di Giuliano Amato per la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli. Ma bloccato, in verità, sulla scrivania del capo dello Stato da un durissimo e persino minaccioso dissenso annunciato in televisione dall’allora capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli.
Fontana era ministro di quel governo. E rivelò con dichiarazioni e interviste, prima ancora di scriverne in un libro, delle numerose e lunghe interruzioni della seduta del Consiglio dei Ministri in cui si varò quel decreto. Interruzioni causate dai continui contatti fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale per concordare il provvedimento articolo per articolo. Erano evidentemente mancati solo i contatti con la Procura di Milano, dove si era presa la cattiva abitudine di essere consultati su questioni e passaggi di esclusiva pertinenza politica. Com’era avvenuto l’anno prima, nel 1992, quando il capo dello Stato ritenne di consultare, appunto, il capo di quella Procura prima di rifiutare la nomina a presidente del Consiglio all’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Che con i primi cosiddetti avvisi di garanzia sarebbe stato formalmente coinvolto nelle indagini chiamate “Mani pulite” solo sette mesi dopo.
Francesco Damato