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Renzi ora sconfigga l’anti-politica alla Renzi

Le dimensioni dell’affluenza alle primarie e della vittoria conseguita sugli altri due concorrenti, distanziati di oltre cinquanta punti ciascuno, conferiscono al nuovo segretario del Pd Matteo Renzi un potere contrattuale sicuramente maggiore del previsto nei rapporti con il suo collega di partito e presidente del Consiglio Enrico Letta. Rapporti, ai fini degli sviluppi della situazione politica, ben più importanti e decisivi di quelli che attendono Renzi con altri partiti, di maggioranza e di opposizione.

Per quanto aumentato, il potere contrattuale del nuovo segretario del Pd con il suo “amico Enrico” non è tuttavia assoluto per definire il percorso temporale e programmatico del governo dalla maggioranza non più larga come alla nascita, nella scorsa primavera, visto il passaggio della rifondata Forza Italia di Silvio Berlusconi all’opposizione (GUARDA LE FOTO della presentazione dei club “Forza Silvio”). La quale risulta ogni giorno più forte e insidiosa anche per la disponibilità che lo stesso Berlusconi sta dimostrando ad assecondarne le pulsioni anche più estreme, persino quelle antiquirinalizie dei grillini.

Manca, in particolare, al potere contrattuale di Renzi il deterrente delle urne anticipate, specie dopo che la Corte Costituzionale ha mutilato la legge elettorale in vigore dal 2005. E, bocciando premio di maggioranza e liste bloccate, ha restituito il sistema elettorale al profilo proporzionale della cosiddetta e odiata Prima Repubblica. Un sistema che è sicuramente il meno indicato a quella “vocazione maggioritaria” del Pd annunciata nel 2007 dal suo primo segretario, Walter  Veltroni, e rivendicata da Renzi dopo i pasticci dello stesso Veltroni, alleatosi imprudentemente nel 2008 con Antonio Di Pietro, e di Pier Luigi Bersani, alleatosi l’anno scorso con Nichi Vendola.

Non è a caso che nel discorso di sostanziale esordio da segretario del partito, celebrando la sua vittoria, il sindaco di Firenze abbia indicato come primo problema proprio quello della legge elettorale. Lo ha fatto per invitare nostalgici e cultori del sistema proporzionale a rimettere in cantina le bottiglie di champagne portate in frigorifero dopo il verdetto dei giudici costituzionali. Ed ha reclamato un intervento legislativo per proteggere dal pericolo appunto del metodo elettorale proporzionale il bipolarismo. Cosa che, essendo il bipolarismo morto di suo con l’irruzione elettorale e parlamentare dei grillini, richiederebbe l’adozione di un sistema a due turni. Il secondo dei quali, come accade con i sindaci, e in Francia con il Parlamento e il presidente della Repubblica, riduce la scelta degli elettori fra le due candidature o liste maggiormente votate nel primo, obbligando quindi tutte le altre o a desistere o a convergere su una di esse.

Per raggiungere un obbiettivo del genere Renzi non può pretendere di giocare da solo, prima convincendo su questa strada tutti i suoi parlamentari e poi puntando sulla maggioranza assoluta di cui dispone sulla carta alla Camera, con i deputati della sinistra vendoliana, grazie al premio appena bocciato dalla Corte. Al Senato una simile maggioranza non esiste. E del Senato non si potrà fare a meno per l’approvazione di qualsiasi legge, e per la fiducia al governo, come appunto vorrebbe Renzi, prima di abolirlo con le lunghe e complesse procedure di modifica della Costituzione.

Ciò significa che sulla strada della riforma elettorale Renzi non può prescindere dalla maggioranza pur non più larga del governo di Enrico Letta. E per prescinderne dovrebbe provocare o subire una crisi, aprendo però uno scenario politico che non è nelle sue esclusive disponibilità, date le competenze costituzionali del presidente della Repubblica e l’arcinota ostilità di quello in carica alle avventure politiche. Uno scenario nel quale il primo a rompersi le ossa del collo potrebbe pertanto essere proprio il nuovo segretario del Pd, nonostante l’indubbio successo conseguito nelle primarie.

Più realistico e costruttivo anche ai fini dei suoi destini politici, di segretario del partito oggi e di candidato poi alla guida del governo, dovrebbe essere per Renzi un asse con Enrico Letta e la sua attuale maggioranza, che peraltro sta per essere confermata in Parlamento con un apposito dibattito di fiducia. Un asse che consenta da qui alla primavera del 2015, dopo il semestre di turno di presidenza italiana del Consiglio Europeo, l’approvazione di un pacchetto di riforme istituzionali e d’altro tipo, fra le quali quella elettorale, capace di togliere argomenti e voti all’antipolitica dilagante.

E’ un obbiettivo, questo della sconfitta dell’antipolitica, senza il quale conterebbe ben poco anche la pur preziosa occasione, anagrafica e politica, che ha Renzi di chiudere davvero con il suo Pd la storia del Pci. Una storia sinora sopravvissuta sostanzialmente a tutte le sigle succedutesi in più di vent’anni, dopo la caduta del Muro di Berlino e il primo formale scioglimento del partito della falce e martello gestito da Achille Occhetto tra lacrime, buone intenzioni ma anche colpi bassi nei riguardi della componente socialista della sinistra. Che pure, al netto dei suoi errori e guai giudiziari, era uscita vincente dal lungo e spesso drammatico confronto con quella comunista.

Francesco Damato


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