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Effetto Renzi anche sulla Cgil?

La vittoria di Matteo Renzi è un duro colpo non solo per Massimo D’Alema, ma anche per il gruppo dirigente della Cgil. Ieri l’appoggio a Pier Luigi Bersani, oggi a Gianni Cuperlo: due scelte di campo, due sonore sconfitte.

Del resto, che la confederazione di Corso d’Italia sia il principale collettore di consensi per il Pd è una classica leggenda metropolitana. Per esserne convinti, è sufficiente dare un’occhiata ai dati del ciclo elettorale maggioritario. La verità è che solo con una buona dose di presunzione o di pigrizia intellettuale qualcuno poteva pensare che gli endorsement di Susanna Camusso o di Carla Cantone fossero in grado di influenzare le preferenze politiche dei loro iscritti. Del resto, come potrebbe farlo un sindacato afflitto da un serio deficit di rappresentanza?

Ma con Renzi, allora, sta nascendo un Partito democratico che intende rappresentare politicamente il lavoro moderno? Lo capiremo meglio quando verrà presentato l’annunciato piano straordinario per l’occupazione. Certo, nel breve termine il suo principale obiettivo non può essere che quello di arginare il numero dei giovani precari, dei cassintegrati, degli “esodati”, dei licenziamenti. Ma un piano non è soltanto un elenco delle cose da fare. È anche una prospettiva ideale e culturale, che consenta la ridefinizione degli interessi del lavoro nel postfordismo.

Se nel ventennio passato la sinistra e il movimento sindacale si sono attestati su una linea di mera resistenza all’offensiva neoliberista, è anche perché hanno forse colto con ritardo le potenzialità insite in taluni cambiamenti del lavoro, suscettibili di creare saperi, professionalità e perfino bisogni inediti. Beninteso, nell’economia italiana il fordismo non è morto. Il larga parte dell’industria e dei servizi, al contrario, è vivo e vegeto. La stessa economia sommersa, in fondo, non ne è che la forma più cruda, quasi “violenta”.

In questa realtà molteplice e mutevole del lavoro siamo, e con essa dobbiamo fare i conti. Il Novecento è iniziato dicendo ai lavoratori che non erano pagati per pensare, e si è chiuso riconoscendo che il lavoro “intelligente”, quello che sa risolvere i problemi, è la vera ricchezza delle nazioni nell’era della globalizzazione. Una forza autenticamente riformista dovrebbe riprendere il filo di questo discorso, rilanciando il tema della valorizzazione del capitale umano come asse di una strategia della produttività e della crescita, che però esige lo smantellamento di ogni centralismo contrattuale.

Nella storia del movimento operaio l’idea del lavoro come pena o costrizione ha sempre prevalso su quella del lavoro come fondamento dell’identità personale. Nel tempo presente, tuttavia, non è impossibile ampliare gli spazi di partecipazione responsabile dei lavoratori nell’impresa. Non è solo un problema sindacale, è un problema politico. Se Renzi riuscirà a convogliare le energie migliori di chi lavora e di chi produce su questo obiettivo, avrà già percorso un bel tratto di strada.



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