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Mete e speranze dei rifugiati del ventunesimo secolo

Secondo il dossier Caritas dai 40 ai 45 milioni di persone l’anno sono costrette a fuggire, in tutto il mondo, per sottrarsi a violenze, persecuzioni, guerre, fame, ecc.
Nel 2011 ne risultano 42,5 milioni dei quali 15,2 milioni rifugiati all’estero e 26,4 milioni sfollati all’interno dello stesso paese.
Nel 2012 circa 45 milioni. La proporzione tra rifugiati oltreconfine e sfollati interni è grossomodo pari a quella del 2011.
Per il 2013 non ci sono ancora dati ufficiali disponibili, ma le prime stime indicano che il dato è analogo o addirittura in crescita, specie in alcune regioni: il caso della Siria e quello del Corno d’Africa e dell’Africa sub sahariana sono tra i più evidenti e sono quelli che più alimentano l’esodo attraverso il Mediterraneo.

LE METE DELLA FUGA
La maggior parte dei profughi che fuggono oltreconfine si fermano in genere nei paesi limitrofi, nazioni che spesso vivono a loro volta difficili situazioni politico-sociali e la cui economia è molto più debole di quella dell’Europa o, più in generale, degli stati del Nord del mondo.
Qualche esempio:
Dalla Siria. Secondo le ultime stime, oltre un milione di profughi si sono rifugiati in Turchia, intorno a 900 mila in Libano, almeno 800 mila in Giordania. A questi vanno aggiunti più di un milione e mezzo di sfollati interni, molti dei quali vorrebbero a loro volta rifugiarsi oltre frontiera. Un dramma nel dramma sono i profughi palestinesi ospitati in Siria da decenni, ma che quasi nessuno dei Paesi limitrofi (in particolare la Giordania) è disposto ad accogliere.
Dall’Eritrea. Dai 70 ai 75 mila profughi sono ospitati in Etiopia in quattro grandi campi di accoglienza. Diverse migliaia sono stati accolti nel Paese (con la garanzia di alloggio e assistenza fornita da amici e parenti emigrati in precedenza) e vivono ad Addis Abeba o nelle altre grandi città etiopiche. Qualche migliaio sono in Kenya e in Uganda.. Oltre 150 mila in Sudan e oltre 30 mila in Israele: più della metà dei 70 mila profughi circa ospitati nel Paese.
Dalla Somalia. Circa 65 mila sono ospitati in alcuni grandi campi profughi allestiti nel sud del Paese, non lontano dal confine. Almeno altrettanti si trovano in Etiopia, Kenya e in Uganda. Il grosso dell’esodo si è avuto sulla scia della carestia esplosa nella primavera del 2010, ma il flusso non si è mai interrotto, alimentato dalle condizioni di guerra ed estrema instabilità politica del Paese, con il governo centrale che riesce a controllare realmente solo la capitale Mogadiscio e limitate porzioni di territorio.
Dal Sudan. Oltre 30 mila (la massima parte proveniente dal Sud Sudan e Darfur) sono in Israele: vivono per lo più nei sobborghi di Tel Aviv o delle altre principali città. Alcune migliaia sono nel grande centro di detenzione allestito nel Negev, oltre 50 mila Sudanesi del Darfur risiedevano in Libia.

Si stima che siano meno del 10 per cento i profughi che puntano verso l’Europa: sembrano tanti perché è enorme il numero assoluto di partenza ma sono in realtà molto pochi rispetto a quanti vengono accolti nei Paesi limitrofi o comunque vicini ai “centri di crisi”.

I PUNTI DI CRISI
Sono almeno nove i “punti di crisi” dove si sono create condizioni d’emergenza che spingono molti a fuggire dal pese:
Siria, Sudan, Eritrea, Somalia, Etiopia (specie nelle regioni meridionali ai confini con la Somalia: Ogaden e Oromia), Mali, Niger, Repubblica del Centro Africa, Marocco (lotta per l’indipendenza del popolo Saharawi).

Le prospettive non sono buone: incombono ulteriori, pesanti situazioni d’emergenza. Cinque esempi in prima piano:
– Guerra del petrolio tra Sudan e Sud Sudan, con interessi diretti di grandi potenze come la Cina, l’India, il Giappone. Punto nodale, la nuova pipeline prospettata (a quanto pare già in via di progettazione finanziamento) da India e Giappone che dovrebbe trasportare in Kenia il petrolio e il gas estratti nel Sud Sudan e attualmente esportato attraverso la grande pipeline costruita dalla Cina e che conduce a un porto sudanese del Mar Rosso. Il Sudan ha già manifestato la sua ostilità al progetto. Petrolio e gas sono essenziali per l’economia di entrambi i Paesi, ma la maggior parte
Dei campi petroliferi e dei giacimenti di gas si trovano nel Sud.
Osservatore molto attento della situazione è Israele, che ha alimentato la rivolta secessionista del Sud Sudan (a maggioranza cristiana e animista) in funzione anti islamica e interessato ora sia al petrolio, sia al rimpatrio dei 30 mila profughi sudanesi che ospita da anni. Le procedure di espulsione dei rifugiati sud sudanesi sono già in atto.
– Guerra dell’acqua per lo sfruttamento del bacino del Nilo (in particolare tra Egitto ed Etiopia) e del bacino dell’Omo (tra Etiopia e Kenya).
– Guerra del petrolio in Somalia. Il Puntland e il Somaliland, le due regioni dove è concentrata la parte più ricca del bacino petrolifero e di gas naturale somalo, non fanno mistero di puntare a una fortissima autonomia o addirittura all’indipendenza da Mogadiscio. Il governo centrale provvisorio si è dichiarato contrario, ma finora non ha avuto la forza di reagire o intervenire perché ha una “potenza dissuasiva” politica e militare irrisoria. Ma la “mina” è innescata. Una situazione analoga si va delineando a sud, nel Giuba, dove è il Kenya a mirare ai campi petroliferi che, in base alle ultime ricerche, sarebbero stati scoperti nella zona a cavallo tra i due Paesi, specie nel tratto di mare prospiciente la costa somala. Secondo diversi osservatori, l’intervento “pacificatore” delle truppe keniote in Somalia sarebbe legato proprio a queste mire. E l’assalto recente al centro commerciale di Nairobi, con decine di vittime, sarebbe la risposta delle milizie degli Shabaab (legate ad Al Qaeda), che controllano la regione.
– Guerra del petrolio nell’Ogaden (Etiopia). Nella regione, di etnia somala e religione islamica, unita all’Etiopia dal ras Menelik nell’ultimo scorcio del 1800, è in corso da anni una decisa lotta autonomista che è progressivamente sfociata in una guerra indipendentista condotta dall’Onlf, il Fronte nazionale di liberazione. Le concessioni petrolifere assegnate dal governo centrale etiopico soprattutto alla Cina ma anche a compagnie europee (Svezia, ecc.) hanno acutizzato il conflitto. La regione è stata chiusa totalmente da Addis Abeba all’accesso della stampa sia nazionale che internazionale e persino delle organizzazioni umanitarie, inclusa la Croce Rossa e Medici senza Frontiere. L’intervento dell’esercito etiopico in Somalia nel 2006, su sollecitazione dell’allora presidente americano George Bush junior, è legato anche al tentativo di tagliare possibili vie di rifornimento alla guerriglia da parte di Al Shabaab. Il conflitto alimenta un forte flusso di profughi soprattutto verso Gibuti, il Somaliland, lo Yemen, il Kenya. Il Fronte di liberazione denuncia di continuo razzie, rappresaglie e uccisioni nei villaggi da parte delle milizie etiopiche e risponde con frequenti attacchi agli impianti petroliferi.
Ripresa della rivolta in Mali. L’intervento armato francese sembra aver risolto la ribellione esplosa nelle regioni del nord, di etnia berbera e tuareg, condotta inizialmente dal Fronte di liberazione dell’Azawad (laico, collegato ai tuareg della diaspora e riconducibile alla fase iniziale delle primavere arabe) ma fagocitata poi da vari gruppi fondamentalisti islamici. Le recenti nuove elezioni presidenziali paiono avvalorare questa tesi. In realtà diversi osservatori fanno notare che le milizie rivoluzionarie non sono mai state veramente sconfitte: sono semplicemente “sparite”, forse mimetizzandosi nel territorio o trovando ospitalità in vari Paesi vicini. Una nuova rivolta starebbe covando, come dimostrerebbero diversi segnali, inclusa la recente uccisione di giornalisti francesi. Prima la ribellione tuareg con la guerra che ne è seguita e poi il colpo di stato a Bamako hanno già “prodotto” centinaia di migliaia di profughi.

LE VIE DI FUGA
Queste le principali vie di fuga dei profughi verso l’Europa (incluso Israele, considerato europeo o comunque parte del Nord del mondo) dai punti di crisi africani esaminati:

Dal Sudan
Verso l’Egitto e il Sinai con meta Israele
Verso la Libia con meta l’Europa

Dall’Eritrea
Verso l’Etiopia poi il Sudan, la Libia e l’Europa
Verso il Sudan, poi l’Egitto, il Sinai e Israele
Verso Gibuti e il Somaliland e poi lo Yemen, al di là del Mar Rosso. Lo Yemen è considerato in genere una tappa intermedia verso l’Arabia o verso nord, fino anche in Europa.

Dall’Etiopia (Ogaden e Oromia)
Verso Gibuti o il Somaliland e poi lo Yemen
Verso il Sudan, poi la Libia e l’Europa

Dal Mali
Verso la Mauritania, il Marocco e poi la Spagna o la Francia
Verso l’Algeria oppure la Libia poi la Francia o l’Italia

Dal Marocco (Saharawi)
Verso l’Algeria e poi la Francia

Niger, Repubblica del Centro Africa e vari Paesi dell’Africa Occidentale seguono grossomodo la stessa via dei profughi del Mali. Un canale alternativo stanno diventando le Canarie.
La risposta dell’Europa

La risposta dell’Europa e in particolare dell’Italia appare del tutto inadeguata. Questo esodo crescente è trattato in genere con interventi di tipo “militare”, come una questione di ordine pubblico o di polizia e non politica. L’intenzione evidente è quello di chiudere al massimo la “fortezza Europa” e di spostare il più a sud possibile la frontiera europea contro cui arrestare questi flussi di disperati: prima sulla sponda meridionale del Mediterraneo ed ora addirittura al di là del confine sahariano della Libia.
L’Italia è in prima linea in questo tipo di scelta, come confermano gli accordi bilaterali stipulati a più riprese con Tripoli: il primo nel 2009, il secondo nel 2012, l’ultimo il 4 luglio 2013.

PATTUGLIAMENTI IN MARE E INDAGINI
Rientra in questo contesto anche il potenziamento dei servizi di sorveglianza nel Mediterraneo deciso, insieme all’Europa, dopo la tragedia di Lampedusa: il progetto, al quale collabora l’Unione Europea, mira a intercettare i barconi di profughi in mare: può darsi che in questo modo i soccorsi siano più rapidi ed efficaci ma in realtà non si affronta il problema alla radice, eliminando le cause di questo esodo crescente di disperati che, in mancanza di alternative, non hanno altra via che affidarsi ai trafficanti di uomini e donne. Un dato per tutti: viene data grande enfasi all’intercettazione dei barconi e alla cattura degli scafisti. Ma gli scafisti sono solo l’ultimo anello dell’organizzazione criminale che gestisce il “mercato”: manodopera composta talvolta da disperati che, privi di denaro o volendo conservare risorse per il primo periodo di soggiorno in Europa, si prestano a fare da “passatori”, pagandosi così il ticket della traversata. Le indagini, in genere, si fermano qui. Nulla o quasi per risalire ai vertici dell’organizzazione dei trafficanti, attraverso un’azione di intelligence internazionale congiunta che coinvolga eventualmente anche l’Interpol. Più volte è stato sollecitato senza fortuna, da patte del Commissariato Onu per i rifugiati e di numerose organizzazioni umanitarie, un coordinamento tra le forze di polizia europee e quelle dei Paesi di transito e di arrivo dei profughi (Egitto, Sudan, Etiopia, Israele). In Italia, in particolare, un intervento di questo genere è stato proposto anche attraverso varie interrogazioni parlamentari: senza esito.

LA POLITICA: I CORRIDOI UMANITARI
Manca del tutto un’azione politica, sia a breve che a medio e lungo termine. Per la lotta alle organizzazioni di trafficanti, ad esempio, il sistema più efficace potrebbe essere l’istituzione di “corridoi umanitari” per l’emigrazione dei profughi, in modo da evitare che l’unica via disponibile siano le traversate clandestine. Si tratta di istituire, cioè, nei Paesi di transito o, dove possibile, di partenza, dei profughi un sistema che consenta di presentare la richiesta di asilo prima dell’imbarco (presso consolati e ambasciate, ad esempio, con l’ausilio del Commissariato Onu e dell’Unione Europea) e una rete di centri di accoglienza dove soggiornare nell’attesa: centri di accoglienza veri e non lager come quelli attuali in Sudan o, peggio ancora, in Libia.
Questa soluzione riaffiora periodicamente. E’ stata proposta da più parti anche dopo la tragedia di Lampedusa. Dopo il clamore iniziale, è stata di nuovo lasciata cadere. Riconsegnando ancora una volta profughi e fuggiaschi ai trafficanti.

INTERVENTI A BREVE E MEDIO TERMINE
– Nuova politica dell’accoglienza in Italia (d’intesa con l’Unione Europea), per creare un sistema più aperto e più in grado di integrare nel tessuto sociale richiedenti asilo, profughi, rifugiati e migranti
– Revoca immediata dei patti bilaterali Italia-Libia che affidano a Tripoli il ruolo di “gendarme del Mediterraneo”, nonostante non abbia mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati e dei migranti e nonostante l’evidente disprezzo dei diritti umani. I 23 cosiddetti centri di accoglienza per i profughi in funzione attualmente sono autentici lager che meriterebbero un intero, lungo capitolo.
– Programma di indagini e interventi internazionali congiunti contro il traffico di esseri umani (azioni coordinate tra i vari governi interessati, Interpol, ecc.)
– Progetti di assistenza e integrazione per chi ha ottenuto una forma di protezione internazionale: attualmente i rifugiati sono abbandonati a se stessi, “invisibili” senza casa e senza lavoro, costretti ad abitare in bidonville e palazzi in disuso occupati abusivamente.
– Interventi italiani ed europei nei Paesi di transito e di prima accoglienza a sostegno della politica di assistenza ai profughi e per difenderne i diritti.
– Sostegno ai Paesi di prima accoglienza dove i profughi sono più numerosi (Sudan, Etiopia, Kenya, Uganda, Libano, Giordania, ecc.) attraverso progetti di assistenza, di istruzione e occasioni di lavoro per gli ospiti dei campi profughi. Un esempio positivo, in questo senso, viene dall’Etiopia, che si è fatta carico di un migliaio di borse di studio per i giovani eritrei presenti nei campi. Italia ed Europa potrebbero sostenere e ampliare questo programma e promuoverne di analoghi in altri Paesi.
– Azioni politiche presso i governi dei Paesi di provenienza per cercare di eliminare o ridurre i punti di crisi che sono all’origine dell’esodo. Un caso emblematico è l’Eritrea. O meglio: la guerra latente tra Eritrea ed Etiopia causata da contrasti sui confini. C’è attualmente un cessate il fuoco che dura da circa 10 anni, con la presenza di forze di interposizione dell’Onu. Le cancellerie europee e in particolare l’Italia potrebbero promuover e un’azione congiunta su Asmara ed Addis Abeba per arrivare finalmente a firmare la pace. In questo modo verrebbe meno l’alibi del dittatore eritreo Isais Afewerki il quale “giustifica” la militarizzazione totale del Paese e la cancellazione di ogni forma di libertà e dissenso con la necessità di una mobilitazione costante per il pericolo di una ripresa della guerra.
– Applicazione rigorosa (con controlli internazionali) dell’embargo sulla fornitura di armi ai Paesi che non rispettano i diritti umani. A proposito dell’Eritrea, un recente rapporto dell’Onu chiama in causa pesantemente l’Italia per la fornitura di armi e materiale che può essere utilizzato a fini bellici alla dittatura di Isaias Afewerki da parte di varie aziende nazionali.
– Inserimento della clausola del rispetto dei diritti umani e dei diritti dei profughi nei contratti economici e finanziari con i Paesi di provenienza, di accoglienza provvisoria e di transito dei rifugiati.

INTERVENTI A LUNGO TERMINE
Nuova politica generale del Nord del mondo nei confronti del Sud del mondo.
Buona parte delle situazioni e dei punti di crisi che provocano l’emigrazione e la fuga di migliaia di persone dal proprio Paese dipendono dal rapporto ancora di sostanziale “soggezione” a cui l’Europa e in genere gli stati occidentali ispirano la propria politica e le proprie scelte nei confronti dei Paesi africani, dimenticando rispetto e diritti per inseguire interessi economici immediati.
Due esempi.
– La “rapina” di enormi estensioni di preziose aree coltivabili in tutta l’Africa che, con la complicità dei governi locali, stanno espellendo decine di migliaia di piccoli contadini dalla loro terra, trasformandoli in sottoproletariato urbano, manovalanza per la criminalità, eserciti di migranti verso l’Europa. Non solo: queste vastissime estensioni di terreno coltivabile, riunite in una o due aziende, non producono per l’economia e l’alimentazione locale. Producono beni che servono invece alla “nostra” economia (mais e canna da zucchero per il biocarburante; cotone per le industrie dei Paesi sviluppati, ecc.) riducendo drasticamente i beni per il fabbisogno alimentare della popolazione Partecipano a questa rapina, oltre all’Europa, Paesi emergenti come la Cina, l’India e, più di recente, a quanto pare, anche il Brasile. La carestia del 2010 è nata anche da qui, oltre che dalla siccità dovuta ai cambiamenti climatici. Occorrerebbe imporre una valutazione internazionale dell’impatto non solo ambientale ma anche sociale sulle popolazioni locali e su quelle a valle di alcune grandi opere in fase di realizzazione (dighe e bacini artificiali sul Nilo Azzurro, dighe e bacini artificiali sull’Omo). Nella valle dell’Omo, ad esempio, secondo diversi osservatori si teme un autentico tracollo sociale per larghi strati degli abitanti locali (sia in Etiopia che in Kenya), che rischiano di essere costretti ad abbandonare le proprie terre e le attività tradizionali e trasformati di fatto in profughi.


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