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Tutta la storia, e la cronaca, sul finanziamento pubblico ai partiti

Gli italiani non hanno mai amato pagare le tasse. Il finanziamento pubblico dei partiti costituisce per essi un peso fiscale del quale è indispensabile affrancarsi. Nel 1993 in un referendum sulla abrogazione della legge sui partiti varata nel 1974, i no risultarono parecchio vicini al 100 per cento, un plebiscito. Malgrado gli impegni presi anche in parlamento, però, il finanziamento pubblico, impopolarissimo, è rimasto ancora in piedi. Anzi, i tesorieri dei partiti pretendono che si trovino ulteriori modalità per aumentare la distribuzione ai gruppi parlamentari, altrimenti i partiti muoiono.

Una giovane studiosa, Ylenia Citino (Partiti a tutti i costi. Il finanziamento dei partiti dal fascismo ad oggi, Sperling & Kupfer, € 18,00), ripercorrendo la storia nazionale dalla formazione dei fasci fascisti di combattimento (che scoprirono l’importanza dell’autofinanziamento, con Mussolini che assicurava: “Se mi portate tre milioni conquisto l’Italia!”) a oggi, pur dichiarandosi favorevole alla abrogazione dell’attuale disciplina del finanziamento dei partiti sostiene: “Dare ai cittadini la possibilità di diventare davvero azionisti del proprio partito può essere una via d’uscita da questa pesante crisi di fiducia che le nostre istituzioni stanno attraversando”.

Le osservazioni della Citino, che si avvale di una nutrita bibliografia meritevole di considerazione da parte di quanti pregiudizialmente negano ai partiti finanziamenti che le cronache indicano soprattutto come fonti di arricchimento personale e di sprechi pubblici, specie in questo momento di irrefrenabile crisi economica, hanno un prefatore d’eccezione: Silvio Berlusconi. Il quale, accusato di avere creato un “partito di plastica”, stupisce laddove dice con convinzione: “Anche se pieni di difetti, di criticità e di storture, i partiti rimangono indispensabili per la democrazia. E gli italiani che si dichiarano antipolitici, invece di rifiutarli, dovrebbero piuttosto puntare a cambiarli”.

L’autrice non si sottrae all’incombenza di soffermarsi sui lavori dell’assemblea costituente e sulle discussioni su quello che sarebbe diventato l’art. 49 della carta; ricostruisce le posizioni assunte dai principali partiti dell’epoca. Sino a quel momento, “i partiti erano stati ignorati dal diritto, occorreva prevedere un loro riconoscimento”. Solo che, avendo prese le distanze tanto dal fascismo che dal precedente ordinamento monarchico, i socialisti democratici (con Carlo Ruggiero) e i democristiani (con l’ineguagliabile Costantino Mortati), sollevarono la questione della «democraticità interna» ai partiti. Sul punto, i comunisti, erano assolutamente contrari a rivelare come erano finanziati. Il più giovane costituente, il democristiano Fiorentino Sullo, presentò un emendamento al testo che incontrava l’opposizione dei comunisti e della destra al riconoscimento giuridico dei partiti così formulato: “Hanno diritto al riconoscimento giuridico tutti i partiti, democraticamente costituiti, mediante i quali i cittadini intendano con il metodo della libertà concorrere a determinare la politica del paese”. L’emendamento Sullo era condiviso da De Gasperi.

Ma il compromesso fra comunisti e destre, con l’aiuto dei socialisti fusionisti riportò la discussione all’inizio. E l’art. 49 Cost. omise “ogni riferimento al riconoscimento giuridico”, che avrebbe comportato una verifica della democraticità interna di tutti i partiti. Sono dell’opinione che una necessaria revisione della carta costituzionale non possa limitarsi alla seconda parte ordinamentale: proprio l’indeterminatezza dell’art. 49 attesta, invece, che la stessa questione del finanziamento pubblico comporti una modifica seria anche della prima parte della Magna Charta. Specie in relazione alle funzioni e alla vita dei partiti (e dei sindacati), che risultano, vaghe, incongrue, superate dalle esperienze storiche successive.


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