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I rischi della fase 2 di Letta-Alfano

Parlare di “fase 2” e di “nuovo inizio” implica riconoscere che ciò che s’è fatto prima non è stato sufficiente a realizzare le politiche prefissate e che, senza una svolta netta col passato, non si può pronosticare alcun domani certo: al governo che c’è e alla legislatura rimasta in piedi solo perché non si sa come chiamare alle urne il popolo sovrano.

Dipendesse dai massimi vertici dello Stato e da chi dirige le varie commissioni parlamentari a ciò adibite, si andrebbe al 2015 e, traccheggiando ulteriormente, anche al 2017, cioè alla conclusione naturale della XVII legislatura. Ma significherebbe anche estraniarsi totalmente dalla realtà economica, sociale e politica italiana ed europea, attendere un qualche miracolo misericordioso che facesse piovere sul vecchio continente, d’improvviso, una messe di manna… e tutti vivrebbero felici e contenti.

Confondere il ribollire della protesta dei forconi con il ribellismo sovversivo, e immaginare di combatterlo con la repressione delle forze dell’ordine, non è una misura né di sinistra, né di centro, né di destra saggia e mirante alla stabilità e all’ordine, ma soltanto una scelta dissennata. Se questa fosse davvero la mitica “fase 2” e il “nuovo inizio” del mini-ministero Letta-Alfano, sarebbe troppo miope. Cominciando col non accorgersi che l’accantonamento dei vecchi capipartito non ha segnato un rinnovamento, bensì un arretramento della politica, l’avvio ad una cancellazione di quel poco, antico buonsenso che residuava in una classe dirigente che, almeno, prima cercava di valutare, magari ricorrendo ai sondaggi, la popolarità o meno di certe misure governative inimmaginabili.

Letta continua a parlare di caos per giustificare le proprie indecisioni e le proprie incertezze strutturali. Non gli sfiora neppure il dubbio che sia il suo ministero, pieno zeppo di impolitici e – diciamolo – di prepotenti, a rendere ancora più caotica la situazione, determinando nel paese situazioni di rigetto dalla portata incalcolabile. Se in certe manifestazioni si infiltrano black bloc o anarchici subalpini o pugliesi o siciliani, ciò non significa che il governo, in nome di un ordine che non riesce peraltro a ripristinare, non debba rendersi conto che il campo della protesta è troppo vasto e, al suo interno, contiene settori di popolazione disperati che non sanno più a che santo votarsi.

È la forza della disperazione che tiene in piedi un popolo di non violenti anche quando creano blocchi stradali o ferroviari un tempo perdonati a ben altre rivolte, quelle sì eversive e paraterroristiche. Questi protestatari non mostrano soltanto forconi lignei non usati come armi improprie: attorno al collo e nel loro urlare aria di disperazione sventolano il tricolore italiano, il simbolo della patria. Di una patria che dimentica gli umili e privilegia le imposizioni mercantili bruxellesi, aiuta le banche, continua a consentirsi il lusso di non aprire un solo cantiere riformatore e sceglie il rinvio come misura per sopravvivere a se stessa.

Letta, Alfano e codazzi mediatici che coprite questi vezzi irresponsabili, ve lo ricordate il sinistro Francesco Crispi che respingeva i braccianti siciliani per compiacere Sua Maestà il re piemontese o che inviava i propri giovani in avventurose imprese in Africa illudendosi di continuare a ricevere l’applauso di un establishment che s’affettò a voltargli le spalle giacché il declino nazionale era giunto a livelli incompatibili con l’esistenza in vita di popolazioni che non sapevano più in cosa credere?

 


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