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Se questo è un Uomo… la tragedia senza fine di Lampedusa

Ieri, in un servizio del TG2, è stato trasmesso un video shock sul centro d’accoglienza per i profughi a Lampedusa. Nel video sono ripresi i Migranti a Lampedusa che vengono sottoposti ad un trattamento antiscabbia. 

Guardando questo video ho ripensato all’opera di Primo Levi, “Se questo è un Uomo” perché lì ho visto la de-umanizzazione di queste persone. Spogliati nudi, in pieno inverno, anche se probabilmente sull’Isola di Lampedusa non è così freddo come potrebbe essere altrove, maschi e femmine insieme, posti in fila, in attesa di essere “lavati” e “disinfettati” con pompe a distanza, come quelle usate per dare i pesticidi.

I volontari e gli addetti si muovono con estrema serenità, eseguono forse questa operazione da tempo. Siamo in un contesto di normalità, per loro. Lanciano gli abiti via, quasi con disgusto. Sono disposti come guardie davanti a detenuti, in attesa che ciascuno abbia il proprio turno per la doccia comune.

La scena è profondamente raccapricciante, triste e dolorosa. Si vede lo smarrimento sui volti di quelle persone. La loro intimità è violata, non c’è rispetto per le loro abitudini e per il loro modo di essere. Nessuno si pone il problema che donne e uomini nudi assieme, potrebbe essere imbarazzante. Nessuno, evidentemente, si pone il problema che questo è il trattamento che si riserva alle bestie e non agli esseri umani. Nessuno, sembra ovvio, percepisce la gravità di questo modus operandi.

Siamo davvero in un’istituzione totalizzante, di quelle da telefilm. Manicomi, ospedali e carceri. Luoghi in cui l’essere umano viene omologato, de-umanizzato, reso numero ed elemento della routine. Eppure il contesto è molto diverso, e siamo nel 2013. Una violenza inaudita che si somma alla violenza subita nei mesi precedenti: la guerra e la povertà, la fuga dalla propria casa, speranze e sogni infranti, la violenza degli sfruttatori e dei mercanti di schiavi, la morte per molti, la salvezza per pochi altri.

Persone che fuggono chiedendo aiuto si ritrovano imprigionate su un’Isola del mediterraneo, alle porte dell’Europa, la civilissima Europa. E poi, sono trattati come animali o come criminali. Guardando queste immagini mi sono interrogato e mi sono chiesto, appunto, se questo è il trattamento che si riserva ad un uomo.

Di Lampedusa si parla sempre quando ci sono motivi per disperarsi o per piangere. Le troupe televisive si accalcano su questi litorali in cerca della scena più scabrosa e poi la diffondono. Sono venditori di lacrime, fanno leva su quel residuo di empatia che ci è rimasta, che in realtà è atrofizzata e incapace di palesarsi. Siamo assuefatti da immagini di dolore e di disperazione, tanto da essere una cornice abituale nelle scene di vita familiare: a cena, la famiglia che guarda il telegiornale, si chiede come sia possibile tutto questo, che milioni di persone soffrano. Lo fanno comodamente seduti al proprio tavolo, mangiando e magari buttando generose porzioni nella spazzatura. Poi, si torna alla nostra vita e la tragedia resta un ricordo, o un momento tra le news.

Lampedusa è una tragedia permanente, perché là ci sono centinaia di persone che vivono una condizione di disagio, di disumanizzazione, di privazione della libertà e dell’autonomia e soprattutto un costante massacro dei propri sogni, delle proprie aspettative e delle proprie speranze.

Il problema di Lampedusa è molto di più che non questi eventi drammatici, appetibili per i giornalisti. Ci sono le vite in gioco ed è nostro dovere impegnarci per cambiare le cose e questo lo si può fare solo con programmi ad hoc, e cooperando con l’Unione Europea da un lato, ma anche capovolgendo la prospettiva con cui si guarda a questi fenomeni: non più momenti del telegiornale, ma aspetti pregnanti della nostra vita, del nostro modo di essere e vivere in società.

 


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