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L’utopia politica reazionaria di Dante che ammalia la sinistra

Con entusiasmo ospito questa acuta riflessione di Noemi Ghetti, contro-corrente rispetto al coro di note sorprendenti con cui i maggiori quotidiani italiani hanno accolto la recente pubblicazione della “Monarchia” (nuova edizione a cura di P. Chiesa e A. Tabarroni, ed. Salerno).

di Noemi Ghetti

Sulle pagine del “Corriere della Sera” (http://archiviostorico.corriere.it/2013/ottobre/07/utopia_moderna_Dante_co_0_20131007_8f04bfbe-2f11-11e3-85b9-b6e5136dfd53.shtml) canforaLuciano Canfora giudica la “Monarchia” la più moderna delle opere dottrinali di Dante, «il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea». Con il suo trattato il poeta «si schierava contro l’ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità». Pur dichiarandosi consapevole del rischio di frettolosi cortocircuiti, il filologo impegnato nelle file della sinistra colloca il trattato dantesco «al vertice di una nobile tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana “libera Chiesa in libero Stato”».

Con maggiore sottigliezza dalle pagine di “Repubblica” cacciariMassimo Cacciari (“Quando Dante immaginava l’Impero come un Paradiso”, 18 dicembre 2013) ricorda come «la forza ideal-eterna del disegno di Dante, che vede nella continuità tra l’Impero romano e il papato un provvidenziale corso della storia, di cui vuole essere profeta», finisca col rendere contraddittorio l’intento di definire l’autonomia dei due poteri, e sia piuttosto espressione «di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale». Circonlocuzioni e acrobazie concettuali che ci portano direttamente nel cuore dell’attuale crisi politica italiana. Un po’ di informazione storica è sufficiente per intenderne il senso e il fine.

Scritto in latino agli inizi del Trecento contemporaneamente alla Commedia, il trattatello costituisce la sintesi estrema del pensiero politico di Dante: l’uomo, composto di corpo e anima, ha bisogno di due guide, l’Imperatore per perseguire la felicità terrena, e il Papa per perseguire quella ultraterrena, secondo l’ordine gerarchico predisposto dalla provvidenza divina. Così si legge nel capitolo conclusivo della “Monarchia”, tanto scomodo da essere dimenticato da Canfora nella sua proposizione di modernità. A conclusione del suo excursus Dante, usualmente celebrato come un campione della critica al potere temporale della Chiesa, sancisce infatti la necessaria reverenza dell’imperatore al papa. Una soggezione che rispecchia la gerarchia obbligata tra ragione e religione: come si sa, e non solo in Dante, la filosofia è ancella della teologia. Ciononostante, l’utopia restauratrice della “Monarchia” non fu ritenuta abbastanza ortodossa dal Santo Uffizio, perché di fatto lesiva del potere temporale della Chiesa: nel 1559 il trattato fu messo all’indice. Ma, venuto meno a Porta Pia il potere temporale della Chiesa, nel 1921 Benedetto XV, nell’enciclica “In Praeclara summorum” dedicata a Dante, indicò il poeta come «validissima guida per gli uomini contemporanei». I Patti lateranensi nel 1929 recepirono l’istanza cattolica, che poi fu ratificata nell’articolo 7 della Costituzione con l’approvazione del PCI di Togliatti.              

Poche le note fuori dal coro: nel 1992 il poeta Edoardo Sanguineti non esitò a definire Dante un «reazionario», nel 2008 Guglielmo Gorni un «visionario fallito»: un coraggioso esercizio di laicità che sembra in tempi di marxisti ratzingeriani assai lontano. A dispetto del lascito di Antonio Gramsci, che in un carcere fascista definì il Concordato «la capitolazione dello Stato», e il Vaticano «la più grande forza reazionaria esistente in Italia, forza tanto più temibile in quanto insidiosa e inafferrabile», Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci, nel suo ultimo libro “Moriremo democristiani?” esalta oggi l’incontro tra cattolici e comunisti, e ripropone il «dialogo tra le due componenti alla base dell’originalità della sinistra» come via di uscita dalla crisi. Altro che utopia moderna, altro che libera Chiesa in libero Stato, dimentichiamo anche Cavour. Nulla di nuovo sotto il sole rispetto al Sacro romano impero, come il Sommo poeta sancì nell’ultimo capitolo della “Monarchia”. Basta solo non dimenticarlo, riservando paradossalmente alla “Monarchia” di Dante lo stesso trattamento riservato al capitolo finale del “Principe” di Machiavelli al fine di alterarne il senso. Non sarà inutile rileggerlo: «L’autorità dell’imperatore deriva dunque direttamente da Dio; ma non si deve escludere ogni vincolo di soggezione al sommo pontefice, dal momento che questa nostra felicità terrena è, sotto un certo rispetto, in funzione della felicità eterna. L’imperatore usi dunque verso il pontefice quella reverenza che il figlio primogenito deve al padre; e il pontefice, benedicendolo, lo illumini con la luce della grazia, acciocché possa più efficacemente esercitare sul mondo quel governo che gli è stato conferito da Dio». Ogni riferimento a persone e fatti della scena politica attuale è del tutto casuale.


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