Skip to main content

Renzi e La Pira, il pantheon fantasioso di Matteo

Matteo Renzi lascia dire di possedere ascendenze lapiriane, essendo stato Giorgio La Pira, per decenni, un vanto per la città del Giglio, anche se a lungo il Professore, come tutti lo chiamavano, incontrò una fastidiosa, grossolana, petulante, irridente opposizione dei comunisti e dei carristi socialisti: come accadde al tempo dell’intervento dei carri armati sovietici a Budapest. Quando La Pira lasciò la sua vita terrena, Renzi andava all’asilo. A tutti è lecito rifarsi ad un padre putativo o, come s’usa ora, a un pantheon di riferimento che, a via di reclutare presunti progenitori di varie specie, finisce col non essere più neppure preso in considerazione tanta è la distanza ideale e politica fra troppi padri differenti. Il che, in definitiva, significa nessun padre.

Allorché La Pira discese in campo per candidarsi a sindaco di Firenze, il mondo cattolico gli fu accanto, ma non in tutte le sue componenti. Il Professore incontrò parecchi ostacoli nella destra clericale, in quella politica e nella stessa Democrazia cristiana. Godendo fama di Santo, i più lo lasciavano fare, pur sapendo che, come amministratore, non s’intendeva molto di conti economici e badava principalmente a fare conoscere Firenze nel mondo. La fortuna di La Pira fu d’incontrare, all’università San Marco prima, nel cattolicesimo fiorentino poi, un giovane valente: ch’egli chiamava con affettuoso nomignolo Nicolino, e che si chiamava Nicola Pistelli. Questi era figlio d’un anziano avvocato sturziano che non aveva brigato coi fascisti ma aveva insegnato alla prole ch’era fondamentale per la crescita della città e dell’Italia non dimenticare l’epoca del “centesimino e della libertà”. Cioè quella in cui era maturata l’autonomia politica dei cattolici che sapevano fare di conto e non sperperavano i fondi pubblici, com’era sempre stato invece nelle costumanze delle sinistre.

Con la rivistina “San Marco” inizialmente, e poi con il quindicinale “Politica”, Nicola Pistelli fece, della Firenze a maggioranza democristiana, un centro di elaborazione di pensiero e, insieme, di battaglie politiche che suscitò attenzione oltre i confini nazionali. Nicola non era dossettiano (come lo era stato per qualche tempo La Pira), ma amico e confidente di Gronchi. Sia quando l’uomo di Pontedera fu capogruppo democristiano alla costituente, sia quando divenne presidente della camera che, soprattutto, quando risultò eletto capo dello Stato, nell’entusiasmo di Pistelli e dei suoi collaboratori di “Politica”. I quali si erano battuti – e continuarono a muoversi in tale direzione – non perché più giovani dei vecchi capi popolari, ma in quanto propugnavano una politica nuova, il centro-sinistra: cioè la collaborazione fra cattolicesimo democratico (maggioritario) e autonomismo socialista (minoritario), trovandosi contro, agguerritissimi, i comunisti, la destra clericale e quella elettrica, fiorentina e nazionale.

Nicola Pistelli fu, per La Pira, come un figliolo speciale, che riusciva a convincere il padre putativo a non eccedere col suo miracolismo programmatico e a restare sempre coi piedi per terra. Cercando di non contrarre troppi debiti e di attenersi alle regole del “centesimino e della libertà”: senza la libertà, cioè senza la democrazia di tutti e per tutti, neppure possedere molti centesimini aveva molto senso. Ma, stando alle affermazioni che ripete in ogni sede, Renzi mostra di non sapere dell’esistenza del “San Marco” e, soprattutto, di ciò che sosteneva “Politica”. Che un fiorentino progressista ma democratico culturalmente attrezzato dovrebbe invece cercare di compulsare per imparare le prime regole del cattolicesimo politico di Alcide De Gasperi.

Fra parentesi: Pistelli scrisse qualche volumetto su De Gasperi, non certo per mera curiosità intellettuale, quando Fanfani si prese il timone della Dc, dando vita ad un partito del tutto diverso, verticistico ed obbediente nel quale esplose il culto della personalità.
A Milano Renzi s’è proclamato “Ribelle” e ha immaginato un Pd ribelle e contemporaneamente responsabile. Anche Mussolini si era dichiarato rivoluzionario per far grande l’Italia proletaria portando ordine nella politica italiana. La stabilità venne da lui assicurata, la libertà sparì, il ribellismo restò confinato nelle carceri fasciste.

Teresio Olivelli, evocato da Renzi, era di tutt’altra stoffa. Il suo “Ribelle” era un giornale clandestino antitotalitario, cioè non solo antifascista. La sua Preghiera del Ribelle era indirizzata al Signore perché facesse gli italiani “liberi e intensi”, affrancandoli dalle “perfidie e gli interessi dei dominanti, la sordità inerte della massa”. Quella massa – lo tengano bene a mente Renzi e i suoi adoranti del momento, che sembrano ignorare di cosa parlano – era stata bolscevica, s’era affrettata a salire sul carro vincente del rivoluzionario uomo di Predappio e il 25 luglio 1943 si riciclò come comunista e per niente democratica. E quelle storie, poco edificanti, sono rimaste a fare da filosofia ai tanti fiorentini integralisti che oggi fanno da codazzo dietro al loro sindaco, credendolo più astuto di chi ha pochi progenitori certi e parecchie virtù da vantare. La prima: non cedere al trasformismo.



CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter