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Gli inciampi di Caselli

Gian Carlo Caselli, 75 anni da compiere il 9 maggio prossimo, merita tutta la comprensione e la solidarietà per le circostanze amare nelle quali ha ritenuto di dovere anticipare volontariamente, sia pure di poco, il suo pensionamento.

Le circostanze sono, in particolare, le polemiche e minacce cadute sul capo della Procura di Torino per il polso giustamente usato nelle indagini sulle violenze dei no-tav; lo scontro avuto con la sua vecchia corrente di “Magistratura Democratica”, indulgente verso una rappresentazione del terrorismo, fatta dal solito Erri De Luca, in versione di guerra civile, nella quale le colpe sono spesso ammantate di buoni sentimenti o propositi; l’accusa, infine, di avere offerto una sponda troppo generosa alla difesa della ministra della Giustizia Anna Maria Cancellieri dal sospetto di avere ispirato o addirittura determinato la scarcerazione di Giulia Ligresti, decisa invece autonomamente dalla competente autorità giudiziaria.

Caselli è tuttavia inciampato un po’ nei tappeti stesigli da giornaloni e televisioni nel momento di uscita dal servizio. Vi è inciampato, per esempio, evocando una lotta alla mafia, da lui condotta negli anni Novanta a Palermo, che forse Claudio Martelli attribuirebbe alla “archeologia”, secondo l’immagine usata di recente dall’ex Guardasigilli socialista con Italia Oggi commentando inchieste e processi sulle trattative che vi sarebbero state durante la stagione delle stragi mafiose fra lo Stato e Cosa Nostra.

Caselli è tornato, fra l’altro, a liquidare come “fandonia” l’assoluzione di Giulio Andreotti dall’accusa di associazione mafiosa, opponendole la prescrizione applicata in Corte d’Appello e confermata dalla Cassazione per i fatti compiuti o addebitati all’imputato sino al 1980. Una prescrizione che avrebbe macchiato in modo indelebile l’innocenza riconosciutagli per i fatti successivi, fra i quali il famoso bacio di Totò Riina raccontato dal pentito Balduccio Di Maggio e che Caselli continua a considerare verosimile.

Passi pure questa prescrizione, anche se ha il sapore di una soluzione di compromesso adottata dai giudici per attenuare la sconfitta di una Procura pilota nella lotta alla mafia come quella di Palermo. Un sapore di compromesso analogo a quello che è forse costato la condanna per frode fiscale qualche mese fa a Silvio Berlusconi in Cassazione. Dove è stato cancellata e restituita ai giudici d’appello di Milano la definizione della pena accessoria dell’interdizione ma, per evitare la prescrizione imminente, non anche la condanna alla pena principale, cioè detentiva, con tutto quello che ne è poi conseguito sul piano politico e parlamentare.

Passi pure, ripeto, la prescrizione applicata ad Andreotti, cui peraltro Caselli ha continuato a rimproverare anche da morto di non avervi rinunciato con quello che sarebbe stato, nelle condizioni in cui si trovava l’imputato eccellente, un atto più di eroismo che di saggezza. Ma qualcosa dovrebbe pur sentire di dire, o di ammettere, Caselli di fronte ai 17 anni e più che l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, rimediatosi nel frattempo nove mesi di carcere a Rebibbia, dodici di arresti domiciliari e un carcinoma, ha dovuto attendere per vedersi riconoscere l’assoluzione piena dall’accusa di associazione mafiosa. E poi ritrovarsi, di recente, imputato nel processo sulla cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia, che lo aveva minacciato di morte inducendolo, secondo gli inquirenti, ad attivarsi per scongiurarla anche a costo di un negoziato immondo.

Peccato, infine, che Caselli lasci il suo servizio anche con una pervicace difesa del suo collega Antonio Ingroia dall’accusa, mossagli pure all’interno della categoria, di avere investito in politica le sue indagini sulla mafia.

Non sulle indagini ma sulla sua “notorietà”, secondo Caselli, avrebbe investito Ingroia presentandosi alle ultime elezioni. E fondando un suo partito, piuttosto che facendosi cooptare da un’altra formazione politica. Ma la notorietà era derivata a Ingroia proprio dalle indagini e dal clamore che avevano suscitato grazie anche al suo modo di porsi e di proporsi mediaticamente. Distinguere ora tra una cosa e l’altra rischia di essere faccenda da leguleio, più che da magistrato, al di là delle stesse intenzioni di Caselli.

Francesco Damato



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