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Napolitano, Cossiga e il grillino Pci

Quello che fu il Pci, con le appendici che seguirono al suo formale scioglimento dopo il crollo del muro di Berlino, non esce certamente rivalutato dalle distanze che Giorgio Napolitano, per difendersi dalla minaccia di Beppe Grillo di promuoverne l’accusa di tradimento della Costituzione, ha voluto appena rivendicare riaprendo i suoi cassetti.

In particolare, il presidente della Repubblica ha diffuso una lettera di apprezzamento scrittagli alla fine del 2005 da Francesco Cossiga a commento di un libro autobiografico dello stesso Napolitano allora appena pubblicato. Apprezzamento per essersi l’attuale capo dello Stato limitato a criticarlo duramente fra il 1991 e il 1992, ma senza condividere il tentativo di impeachment, cioè di incolpazione, davanti alla Corte Cosituzionale. Che il Pci, diventato nel frattempo Pds senza cambiare segretario, volle invece formalizzare con un dossier destinato ad essere archiviato in Parlamento solo nel 1993, quando Cossiga non era più presidente. E non era evidentemente più temuto dal maggiore partito della sinistra italiana, dal quale anzi sarebbe stato aiutato cinque anni dopo, nel 1998, a portare a Palazzo Chigi Massimo D’Alema.

Dalla vecchia autobiografia di Napolitano, scritta e pubblicata quando l’autore riteneva davvero conclusa la sua lunga esperienza politica e neppure immaginava di poter essere eletto qualche mese dopo al Quirinale, esce confermata la rappresentazione di un Partito comunista abituato a giocare con il capo dello Stato come il gatto con il topo. Pur con la riserva, coltivata dalla sua minoranza moderata nei riguardi di Cossiga, di condizionarne la condotta o indurlo alle dimissioni, senza mangiarselo con un formale processo. Una riserva francamente modesta, soprattutto perché già sperimentata negli anni precedenti da tutto il partito, e non solo dalla sua minoranza, con effetti a dir poco disdicevoli. Che avrebbero dovuto consigliare ai moderati del Pci forme ben più visibili e concrete di dissenso dal vertice, destinate alla conoscenza non dei soli addetti ai lavori, ma di tutti i militanti e gli elettori.

Quest’obbligo di trasparenza, con un’azione visibile e forte di contrasto, essendo in gioco la posta della Presidenza della Repubblica, avrebbe dovuto essere avvertito nel 1992 per non replicare, in particolare, l’operazione politicamente e anche umanamente indegna condotta nel 1978 contro Giovanni Leone. Del quale il Pci guidato da Enrico Berlinguer aveva preteso e ottenuto le dimissioni, minacciando in caso contrario la caduta di un governo monocolore democristiano condizionato dal suo appoggio esterno.

Mancavano solo sei mesi alla scadenza ordinaria del mandato presidenziale, e si era appena conclusa la tragedia del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, ma il Pci volle ugualmente la testa di Leone. Contro il quale accreditò così una campagna moralistica condotta tanto fondata da essere smentita rapidamente nei tribunali.

Eppure, solo una ventina d’anni dopo quell’allontamento dal Quirinale il Pci – e poi Napolitano in persona come capo dello Stato celebrandone la figura nella sua Napoli – avrebbe ammesso l’errore. E chiesto scusa all’interessato, al pari dei radicali di Marco Pannella, che avevano partecipato a quella campagna, a volte persino guidandola.

Beppe Grillo oggi segue contro il Quirinale l’esempio del Pds-ex Pci di Achille Occhetto non condiviso a suo tempo da Napolitano. Ma, sul piano storico, e al netto di tutta la comprensione che merita l’attuale presidente della Repubblica per gli insulti e le minacce che gli stanno guastando le feste, non è che la terapia di Enrico Berlinguer nei rapporti con il Quirinale, più vicina alla filosofia reclamata da Napolitano nei riguardi di Cossiga, fosse gran che diversa. Almeno negli effetti politici, istituzionali e umani.

Francesco Damato



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