In principio era il Job Act di Matteo Renzi. Poi, nel giro di pochi giorni, sono arrivati anche gli altri. Una scossa al dibattito politico sul tema del mercato del lavoro che ha costretto molti attori ad un’inaspettata accelerazione.
LETTA E CAMUSSO VERSUS RENZI
Prima fra tutti, quella del premier Enrico Letta che starebbe orchestrando proposte alternative a quelle del sindaco di Firenze e segretario del PD. Si muove anche la Cgil, che sta lavorando ad un proprio Job Act con proposte per il Governo. Susanna Camusso ha annunciato che il primo passo, dopo l’Epifania, sarà un faccia a faccia con Marianna Madia e Filippo Taddei, i due membri della segreteria che stanno lavorando a tempo pieno sul dossier. Quanto annunciato (peraltro in modo ancora nebuloso) da Matteo Renzi ricalca modelli di altri Paesi europei di “contratto unico” a tempo indeterminato in cui però si acquistano gradualmente alcune tutele (quali la “giusta causa” per il licenziamento individuale per determinanti non economiche).
LE PRIME REAZIONI ALLO JOB ACT ALLA RENZI
La frenata principale, però, è arrivata alla vigilia di Natale dal ministro del Lavoro Enrico Giovannini: “Noi abbiamo incentivato la trasformazione di contratti a termine a contratti a tempo indeterminato. Il contratto unico non può essere la sola strada ma può essere un aiuto”. Secondo Giovannini quella di Renzi è una “proposta non nuova: riuscire a rendere più stabile il lavoro è una delle esigenze che tutti abbiamo”. Inoltre, secondo l’ex presidente dell’Istat “senza ripresa è difficile creare lavoro, ma cambiare semplicemente le regole non è che crea necessariamente nuovo lavoro” e “pensare ad un ammortizzatore generalizzato per tutti ha un costo molto elevato”. “Dobbiamo vederla la proposta che farà Renzi e il suo team perché ce ne sono varie di versioni. Per esempio – ha aggiunto – c’è chi dice facciamo questa eliminazione dell’articolo 18 solo per i primi 3 anni in cui l’impresa capirà se la persona è valida o meno e poi lo trasforma in tempo indeterminato. Altri invece nel passato hanno detto “no, l’impresa deve avere libertà di licenziamento in cambio di un’indennità per tutta la vita lavorativa della persona. C’è un po’ di confusione e speriamo che a gennaio queste proposte diventino molto più concrete” ha concluso. In un’intervista al “Corriere della Sera”, Angelino Alfano, Vice Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, ha detto, nel merito delle misure avanzate da Renzi, “Siamo pronti a discuterne ma senza una ripresa più forte di questi mesi è difficile creare lavoro. C’è un po’ di confusione e speriamo che a gennaio queste proposte diventino molto più concrete”.
L’UTILITA’ DI UN LIBRO
E’ in questo contesto che è utile leggere il saggio Giovani al Lavoro-Proposte Semplici per un Problema Complesso di Giuliano Cazzola, Angelo Pasquarella e Alessandra Servidori. Non è un libro “tecnico” di diritto del lavoro, di sociologia del lavoro o di economia del lavoro. E’, al tempo stesso, un reportage sui milioni di giovani che ricercano lavoro, di quelli che riescono a trovarlo (in Italia od all’estero), di quelli che finiscono nel lago immenso dei NEET (che non studiano e non lavoro, soprattutto perché scoraggiate), delle burocrazie dell’amministrazione del lavoro. Come altri lavori di Cazzola (e dei suoi associati) è un libro che si legge bene e da cui si impara molto. E’ – quel che più conta – un libro denso di positivo ottimismo su un tema che potrebbe indurre alla più nera disperazione. Non se ne deduce una proposta unica o compiuta (come quelle su cui stanno lavorando varie parti politiche e sociali). Non è neppure un baedeker su come aggirarsi meglio nei meandri delle norme e delle amministrazioni. Eppure leggendo il saggio (e gli utili riquadri che descrivono storie ed esperienze personali) si ricavano idee su cosa possono fare la politica, le amministrazioni e soprattutto i diretti interessati in un’Italia in cui la disoccupazione giovanile di massa pare diventata strutturale.
DISOCCUPAZIONE IERI E OGGI
Una ventina di anni fa, ho trattato il tema della disoccupazione giovanile in un saggio; allora, però, il fenomeno “strutturale” riguardava essenzialmente il Sud e le Isole mentre nel Centro-Nord la leggera recessione dell’ultimo scorcio degli Anni Ottanta aveva avuto ricadute “congiunturali” sui giovani. Anche allora, però, le così dette “politiche attive del lavoro” sembravano fare cilecca e, infatti, la proposta da quell’ormai datatissimo lavoro riguardava le politiche industriali e l’amministrazione del lavoro (non migliorata da allora, secondo gli autori del libro, ma aggravata dall’accavallarsi di agenzie ed enti in cerca di una chiara missione).
TRE ASPETTI DA APPROFONDIRE
Nel dibattito attuale il libro di Giuliano Cazzola, Angelo Pasquarella ed Alessandra Servidori può essere utile nell’individuare provvedimenti (soprattutto amministrativi) puntiformi tali da alleviare la situazione.
Ci sono, però, tre aspetti su cui occorre approfondire l’analisi:
– Il primo è che, come ricorda spesso Enrico Giovannini, è che l’occupazione si crea con le politiche economiche (di crescita) non con le politiche del lavoro. In Italia, Paese trasformatore con poche aree ad alta produttività agricola e con servizi (specialmente nel finanziario-assicurativo) arretrati piuttosto che maturi, l’occupazione dipende da oltre cento anni dall’industria: dato che la produzione industriale si è contratta dal 22% al 15% del valore aggiunto, è questo il tassello su cui insistere.
– Il secondo è che occorre capire come migliorare la qualità delle nostre risorse umane. I “miracoli economici” degli anni Cinquanta e Sessanta stimolarono analisi a carattere strutturale sia da parte di economisti di cultura occidentale liberale (come Kindleberger) sia da parte di economisti, anche americani ed europei ma prevalentemente dell’Europa centrale ed orientale, di estrazione e cultura marxista (come Carnoy e Jánossy). Pur senza poter leggere l’uno il lavoro dell’altro, e partendo da schemi teorici contrastanti, Kindleberger e Jánossy studiarono a fondo il “caso Italia” e giungessero a conclusioni simili. Vale la pena riprendere oggi in mano il loro lavoro: i nostri giovani sono sempre più sfavoriti nella competizione mondiale a ragione di vetusti sistemi d’istruzione e formazione a tutti i livelli.
– Il terzo punto riguarda la tecnologia. Da un lato, negli Novanta, Europa, Nord America e Australia-Nuova Zelanda hanno perso il monopolio del progresso tecnologico che aveva consentito per due secoli tassi di sviluppo molto più rapidi del resto del mondo (che restava in un’economia di sussistenza). Da un altro lato, dagli Anni Settanta il progresso tecnologico (anche la telematica) comporta grandi benefici individuali (ed anche aziendali) ma basse esternalità ed interdipendenze per la collettività nel suo complesso (se raffrontato con i mutamenti tecnologici precedenti). Ciò spiega il crollo degli incrementi della produttività totale dei fattori nei Paesi avanzati (ed il tracollo in Italia anche a ragione di quanto riassunto nel capoverso precedente). Se non cambia il passo in questo campo, i Job Acts rischiano di diventare mero “thinkering” (giocherellare al margine senza davvero incidere).