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Il Jobs Act è un buon lavoro. Parola di Massagli (Adapt)

Il Jobs Act è un buon lavoro. Parola di Emmanuele Massagli, presidente del think tank Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro. Massagli è stato coordinatore della segreteria tecnica del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. 

Che ne pensa del Jobs Act alla Renzi?

E’ un collage di tante idee presentate negli anni, anche in sede legislativa. Attinge da progetti di partiti, politici e tecnici di ispirazioni opposte. Questo non è un male. Denota una volontà di superare molte barriere ideologiche che soprattutto in materia di lavoro sono sempre state ostacoli insormontabili.

Quindi? Ha un giudizio positivo o negativo?

La novità del Jobs Act non mi pare da ricercarsi nelle misure individuate, tutte già sentite, ma nella facilità nel parlarne e nella disponibilità a raccogliere il consenso di chiunque, immagino anche fuori dal PD, per realizzarlo davvero.

Entriamo nel merito. Quali sono gli aspetti che più la convincono e quali quelli che la convincono meno?

Ottimo il superamento del “tabù” articolo 18, per quanto non direttamente citato. Interessante anche l’apertura in materia di partecipazione e l’agenzia nazionale sul lavoro se correttamente declinata. Certamente positivo anche il desiderio di semplificazione, seppure ancora ingenuamente trattato solo in ottica quantitativa (semplificazione non è di per sé “meno norme”, ma soprattutto “norme comprensibili e coerenti”).

Solo elogi?

Peccato per lo scivolone sulle 40 forme contrattuali. Slogan di vecchia origine Cgil, poi messo nel cassetto perché sono circa un quarto le forme contrattuali in Italia e qualsiasi operatore sa che la ricerca di una forma contrattuale “unica” è una fissazione che porterebbe più danni che vantaggi, non essendo “uniche” l’economia e le modalità di lavoro.

Individua altri limiti?

Non condivido inoltre l’ansia (già altre volte espressa) per l’approvazione di una legge sul sindacato e l’assegno universale se è solo spesa pubblica slegata da versamenti assicurativi che la coprano. Mi paiono infine meno urgenti le proposte sulla rendicontazione della formazione professionale e la perdita del sussidio in caso di rifiuto di proposta di lavoro: sono norme che già esistono. Si tratta di renderle applicabili, non reinventarle.

Il ministro del Lavoro, Giovannini, teme che sia troppo costoso con l’indennità di disoccupazione generale. Condivide?

Probabilmente ha ragione Giovannini. Ma se c’è interesse ad approfondire la materia si tratta di mettersi al tavolo a fare i calcoli. Certo non possono coesistere la cassa integrazione guadagni come ora concepita, il sussidio di disoccupazione vigente e la proposta di assegno universale renziana. Il limite di questa idea è la natura disincentivante di un assegno coperto dalle sole casse pubbliche. Più sostenibile e ragionevole la costruzione di un sistema che può anche essere diverso, ma non può perdere la natura assicurativa a scapito di quella “elargitiva” a fondo perso.

Pietro Ichino critica la genericità e l’evanescenza del progetto renziano. Che ne pensa?

Mi pare una critica un pochino affrettata. Forse giustificata dalla delusione nel vedere che il proprio progetto (il famoso “contratto unico”) non pare essere la strada scelta da Renzi. Per le specifiche tecniche Renzi dice che bisogna aspettare il 16. A questo punto tanto vale attendere qualche giorno prima di bollare tutto come evanescente. Non trattandosi di idee nuove, non dovrebbe essere molto difficile per Madia e Taddei recuperare le proposte legislative su questi temi depositate negli anni e costruire un testo unitario e comprensibile. A quel punto tutti lo potranno valutare anche nelle soluzioni tecniche.

Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera ha apprezzato l’indicazione dei settori in cui si possono sviluppare posti di lavoro. Anche lei apprezza?

Apprezzo in particolare la presa di coscienza che i posti di lavoro non sono creati dalle leggi, ma dalle imprese. Pare un’ovvietà, ma negli anni della spesa pubblica allegra si è creduto il contrario e i risultati li osserviamo bene ora. Non mi convince invece l’esaltazione di quelli che Ferrera chiama “i lavori nuovi in settori nuovi”. Tema importante, è indubbio. Meno però dell’esigenza di riflettere sul nuovo modo di lavorare nei settori vecchi. Quali nuove professioni? Quale l’evoluzione delle professioni tradizionali? Quali le nuove competenze richieste? E quindi quale nuova formazione dei giovani e degli adulti? Non si discute di questo, neanche nel Jobs Act di Renzi. Forse si crede che la green economy come per magia assorba più occupazione del settore metalmeccanico o del commercio al dettaglio o del piccolo artigianato?

E’ troppo timida la proposta nel superamento dell’articolo 18?

Sì, troppo timida. Forse per opportunità politica. Ma è ormai un tema di retroguardia che merita di essere adattato al mercato del lavoro moderno, guardando alle molte e diverse pratiche degli altri Paesi europei.

Perché puntare sul contratto unico a tempo indeterminato? Se lo chiedeva giorni fa Giuliano Cazzola prima della presentazione del Jobs Act.

Se non si ha conoscenza diretta della varietà delle attività di impresa e delle modalità di collaborazione alla stessa e si crede che “semplificazione” sia solo sinonimo di “diminuzione” ovvio tendere verso una soluzione unica e omnicomprensiva.. Ad ogni modo nel documento di Renzi non mai citata la parola “unico”. Si parla solo di generica riduzione delle forme contrattuali e di un “contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”, che in parte già esiste per i giovani ed è l’apprendistato e per tutti gli altri potrebbe essere nient’altro che un periodo di prova lungo.

Ma secondo lei siamo sicuri che nuove norme sul lavoro producono nuovo lavoro?

Siamo assolutamente certi del contrario. Le norme sul lavoro, sia vecchie che nuove, non producono nulla. Al massimo possono incoraggiare la propensione ad assumere degli imprenditori e facilitare le assunzioni, ma la storia (e i dati sugli esiti) degli interventi più recenti, dalla Riforma Fornero al Pacchetto Letta Giovannini, dimostrano che questo intento è fallito. Si faccia di tutto per rendere più fluida e vivace l’economia del Paese e di conseguenza riprenderà anche l’occupazione.


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