Fu la subcultura propagandistica comunista di Giancarlo Pajetta, dell’Unità, di Vie Nuove, della miriade di giornaletti locali delle federazioni del Pci e di quella locupletata stampa satirico-anticlericale alla Don Basilio a infiltrare, sul finire degli anni Quaranta del Novecento, nella cultura popolare una sistematica denigrazione di tutto ciò che avesse il sapore di democristiano: dai suoi dirigenti (De Gasperi in testa), alle sue alleanze (coi partiti di Einaudi, Saragat e Calosso, Sforza, Pacciardi e La Malfa), al suo linguaggio, mai minaccioso e piuttosto felpato e tranquillizzante.
Quel propagandismo dozzinale, sguaiato, gustato dal ventre molle di settori sociali ai quali era stata promessa la rivoluzione col suo Paradiso Terrestre, fece larga presa. Fu sposato da una letteratura spicciola che faceva cassetta. Venne col tempo data per acquisita persino in un accademismo cialtrone e rozzo, rimasto purtroppo come filo rosso conduttore di una editoria che si presumeva colta e, invece, era miserabile, proterva, negatrice della realtà storica. A cominciare dalla lunga guerra civile: che proseguì oltre il termine del 18 aprile 1948; insidiò il sessantottismo; tramutò la protesta degli anni Settanta in terrorismo (o fiancheggiamento di tutto ciò che si rifugiava nella violenza per cambiare il mondo).
Frattanto la Dc governava: talvolta bene, non raramente meno bene, talaltra male; e, se ciò accadeva, veniva regolarmente bastonata dagli elettori. Era questa – come nell’intero Occidente – la regola della democrazia: quando si sbagliava, gli elettori giudicavano, penalizzando gli erranti; e indicavano le linee di tendenza dei cambiamenti possibili. La Dc si adeguava. Non sempre con prontezza. Ma non si sottraeva alle proprie responsabilità, non ricorreva a sotterfugi o a leggi truffaldine. Nel 1953, per dire, accordò agli sgomitanti alleati centristi che ne temevano la forza un premio di maggioranza: solo alla coalizione che avesse superato il 50 per cento + 1 dei voti validi; e non meno del 30 per cento, come è accaduto nelle ultime legislature repubblicane e in epoca bipolarista.
Il democristianese di cui parlano ora l’avanguardista Matteo Renzi (abituato al lessico dissacrante dei boys scout di rito anglo-protestantico, troppo sbrigativo in qualsiasi giudizio) o il giornalone della borghesia meneghina (che non perde il vizio di denigrare le fonti cui si è abbeverato per decenni) non è mai esistito. I democristiani non parlavano tutti la medesima lingua. Né si comportavano tutti alla medesima maniera. E se avevano un difetto – ma era piuttosto una virtù democratica – non erano monocordi; si dividevano e si scontravano tra loro sul presente e sulle prospettive democratiche possibili. Insomma raccoglievano e rappresentavano in parlamento e nei governi interessi molteplici del popolo minuto (come aveva insegnato De Gasperi), parecchio lontani dall’internazionalismo classista e da una borghesia bottegaia o fordista, cioè prepotente, arida, forte coi deboli, cedevole verso la sinistra prepotente.
Renzi e De Bortoli, tanto per fare i nomi di personalità che vanno ultimamente abbandonandosi a letture non benevoli della storia democristiana, pare non s’accorgano del fallimento di ciò che è venuto dopo i vari governi scudocrociati. Sbagliano scientemente perché temono che l’Italia stia per stufarsi dei fallimenti successivi alla Dc e ritengono non impossibile una riabilitazione popolare della democristianità: che andava oltre i confini del partito scudocrociato; era anche laica; riusciva a rendersi autonoma, quando occorreva, rispetto alla stessa Chiesa; badava al consolidamento della democrazia, non all’incremento delle posizioni di potere elevato a poltronificio. Che poi è la ragione principale per la quale i cittadini si sono sempre più allontanati dalla politica.
Magari ci fosse una ripresa del pensiero politico democristiano (non del doroteismo, che costituiva la componente più invadente, pragmatista ma penalizzante l’insieme scudocrociato). La situazione di oggi, priva com’è di pensiero politico positivo di riferimento, rende vano anche ai pochi (in verità non proprio pochissimi) democristiani persino di apparire sui media. Se, pregiudizialmente, i principali media (e fra questi vanno considerate le catene dei giornali dal pensiero unico corporativistico e diseducante) sghignazzano sul democristianese che non c’è, è palese che il livello della classe politica e di quella giornalistica è crollato molto in basso. Ma non può essere chi scenda a simili livelli a fornire ricette salvifiche ad una comunità che merita qualcosa di meglio e di veramente progressista.