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Vent’anni fa l’implosione della Dc

Il 18 gennaio di vent’anni orsono la Dc si liquefece, sparpagliandosi in almeno cinque rivoli: il partito popolare italiano a disposizione di Mino Martinazzoli, Rosy Bindi e Sergio Mattarella; l’unione cristiano democratica di Pier Ferdinando Casini, Sandro Fontana e Clemente Mastella; il patto di Mario Segni e Alberto Michelini; i cristiano sociali di Pierre Carniti e la Rete di Leoluca Orlando, particolarmente sostenuta, questa, da autorevoli ambienti gesuiti di Palermo (ma anche di Roma e di Milano). Ma la sorte di quello che, sino al luglio precedente era stato, a cominciare dal 1946, il primo partito italiano, era già stata segnata da una assemblea costituente, costituita per metà da iscritti e per l’altra metà da “esterni” cattolici, che con una votazione controversa preannunciò il suicidio del partito fondato da Alcide De Gasperi.

L’assemblea nazionale conclusasi il 26 luglio 1993, inserendosi nel grande filone moralistico aperto l’anno prima dal pool di Mani Pulite, aveva fatto ricorso ad una radicale mutazione delle posizioni tradizionali della Dc. Di tutto si parlò all’Eur fuorché di pensiero politico democratico; di crisi del sistema politico italiano dopo la caduta del Muro di Berlino (in parte dovuta anche all’intraprendenza del papa polacco Giovanni Paolo II); di alleanze squisitamente democratiche; della insorgenza (nelle regioni settentrionali) del dilagante fenomeno leghista; dell’eccessivo protagonismo dei pm della procura di Milano in spazi costituzionalmente riservati alla politica e ai partiti. Commentando l’evanescenza di una Dc che aveva a lungo rappresentato (come ministro, segretario del partito, presidente del consiglio e presidente del senato), Amintore Fanfani dichiarò senza peli sulla lingua: “La nostra principale colpa è avere allevato troppi mediocri”. E nessuno dei nuovi capi delle varie formazioni emerse quel 18 gennaio 1994 ebbe il coraggio civile di obiettare alcunché. Anzi, tutti erano convinti, a principiare da Martinazzoli, che conveniva andare alla conta delle urne con rassegnazione, accettando qualunque esito: anche l’eventuale affermazione dei postcomunisti di Achille Occhetto; mentre la grande industria e i grandi giornali, tifavano apertamente per Mario Segni come capo di un governo postelettorale.

Da vent’anni il pensiero politico dei cattolici di parte democratica è rimasto racchiuso in un paio di archivi storici che, benché ricchi di documentazione esclusiva, pochi consultano a dovere per non essere costretti a fare i conti con la propria coscienza. Gli elettori già democristiani di dispersero: concentrandosi principalmente sulle liste di Forza Italia del “guitto” (come veniva deriso) Berlusconi, piuttosto che sui candidati delle varie formazioni postdemocristiane: due delle quali, i cristiano sociali e i retini, palesemente rinnegavano il passato remoto degasperiano. Forza Italia divenne il partito-rifugio della maggioranza degli ex democristiani. Anche se i principali esponenti di quello che veniva definito un “partito di plastica” erano di chiara estrazione laica, se non radical-laicista. Dopo il voto del marzo 1994 mai più un partito democratico di ispirazione cattolica riuscì a riservarsi quote significative di elettorato cattolico. Anzi, negli ultimissimi anni, ai vertici della Chiesa si è apertamente ammessa “l’insignificanza” politica dei cattolici italiani, sperando almeno che altri gruppi raccogliessero la bandiera della difesa dei valori irrinunciabili fissati dalla tradizione e dalla fede.

Tutti i partiti, ormai da due decenni, reclamano il diritto a rappresentare i cattolici, non importa se in realtà progettano trasgressioni indecenti in tema matrimoniale, persino in materia di concepimento della prole al di fuori del coniugio tra uomo e femmina, ovvero inneggiano all’aborto come il massimo di civilizzazione e di emancipazione delle donne. La Dc, oltre tutto, salvo una fase nella quale si lasciò coinvolgere nella battaglia antidivorzista, aveva difeso nei fatti gli interessi della Chiesa, ma rivendicando sempre una propria autonomia politica e civile di scelta anche sui temi sensibili.

Ciò che oggi sconcerta è che – dinanzi al trasparente fallimento dell’intero sistema politico nazionale, ridottosi ad una faida referendaria pro o contro l’inaffondabile Berlusconi – da più parti s’invochi il ritorno, in qualche forma, ad una politica di segno democratico cristiano; e che, a proporsi come fautori di una nuova Dc, vi siano personalità che, nell’ultimo ventennio, abbiano fatto politica, per esempio all’interno del Pd, in senso del tutto opposto ai postulati che De Gasperi impresse al partito anche in termini polemici con il variegato associazionismo cattolico.

Ciriaco De Mita ha recentemente dichiarato che sono spariti i democristiani, ma è viva nel paese una coscienza democratica e cristiana. Ultimamente personalità presenti in varie formazioni hanno preso a valutare l’opportunità di raccogliersi in un movimento di popolari per l’Europa, cui alcuni sono ammessi a titolo personale. Domani costoro potrebbero confluire in un patto federativo. Se ciò accadrà, i mesi che ci separano da una nuova consultazione elettorale dovrebbero poter servire anche a verificare se simile prospettiva corrisponda alla realtà e, soprattutto, al domani di un’Italia più moderna e meno corporativa e conservatrice di quella offerta da un Pd che non sa neppure assumere il nome di socialdemocrazia, avendo il forte timore di spaccarsi definitivamente in più filoni.


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