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Con l’Italicum cambi anche l’elezione del presidente della Repubblica

L’adesione al patto del Nazareno anche dei partiti minori di governo, con la sospensione (o l’attenuazione) di critiche sproporzionate e surreali come quelle iniziali di Fabrizio Cicchitto, dovrebbe facilitare un percorso riformatore atteso da decenni. Dovrebbe. L’ostruzionismo della sinistra postcomunista e la ribellione di alcuni settori parlamentari d’ogni colore che temono d’essere tagliati fuori dal prossimo parlamento, potrebbero ancora procurare sorprese negative e frenatrici di qualsiasi innovazione.

Se la maggioranza reale del parlamento saprà riappropriarsi del proprio diritto a riordinare lo Stato senza penalizzare le minoranze (ad eccezione di quelle che hanno dall’inizio preso la strada dell’estraneità e del rifiuto pregiudiziale come il M5S), il residuo della XVII legislatura potrebbe assumere un carattere costituente. Recuperando la propria dignità politica, il rispetto di più vasti settori dell’opinione pubblica sempre più scettica nei confronti dei partiti e una capacità produttiva sin qui scarsissima e penosamente confusa.

La positività del patto fra Renzi e Berlusconi sta nel realismo politico di entrambi i leader che, spazzando via pregiudizi e invasioni di campo pregiudizievoli della salute della democrazia italiana, hanno avuto un colpo di reni e messo in gioco non soltanto una legge elettorale perché obbligati da una sentenza della Consulta (anch’essa una magistratura non terza), quanto la revisione del Titolo V della costituzione e la trasformazione del senato, da doppione della camera dei deputati in senato delle autonomie. Cioè hanno elevato la funzione della legislatura corrente, oltre che al controllo dell’esecutivo, a lavorare per modifiche costituzionali rilevanti e, dunque, a fungere come fosse una seconda assemblea costituente, dopo quella del 1946-1947. Questa seguì due percorsi: uno di gestione politica più o meno ordinaria, coordinata ma pur sempre separata dal lavoro costituente; l’altro esclusivamente speso nella scrittura di una carta costituzionale da parte di maggioranze di solito non coincidenti con la maggioranza governativa e che, non lo si dimentichi, fu dapprima esarchica, poi tripartita, infine centrista. Nell’ultima fase le sinistre consumarono più tempo nell’opposizione ai governi De Gasperi che a suggerire misure per la ricostruzione materiale del paese semidistrutto dagli esiti bellici o per riacquisire un minimo di credibilità sul piano internazionale a seguito di un trattato di pace dal quale Unione Sovietica, Jugoslavia di Tito, Grecia e Francia trassero riparazioni territoriali indecenti.

Se, dunque, la XVII legislatura, secondo gli auspici e il contributo del capo dello Stato, saprà non perdere l’occasione di assumere funzioni costituenti di fatto, probabilmente gli italiani cominceranno ad essere meno severi coi loro governanti; inizieranno a capire meglio dove i ministri non riescono ad essere all’altezza dei loro compiti e dove, invece, incontrano difficoltà esterne. Che non si rimuovono con semplici manifestazioni di volontà politica o di annunci di cambiamenti che non arrivano mai o giungono preventivamente manipolati da una burocrazia costosa, inadeguata, parassitaria, ritardatrice, corporativa.
Non per mettere troppa carne al fuoco, ma solo per fornire un motivo di riflessione sulle implicazioni della riforma del senato e del Titolo V, mi permetto di segnalare che entrambi gli ambiti di cui si postulano modifiche fondamentali e serie hanno connessione sia con le funzioni che col processo formativo delle presidenze della repubblica. Non si tratta di marginalità.

Evito di affrontare, almeno per ora, il tema del presidenzialismo (o del semipresidenzialismo), che andrebbe comunque valutato non solo perché segnalato da alcuni dei sostenitori minori del patto Renzi-Berlusconi (Quagliariello, in particolare). Così come credo che non si possa mancare di assegnare al presidente del consiglio poteri che ora non ha, causa la tendenza assemblearistica prevalsa su quella parlamentarista in costituente nel timore che si potesse ricadere in un sistema autoritarista. Ma c’è un punto ineludibile, che non si potrà evitare: quello della modalità di elezione del capo dello Stato, della composizione del corpo elettorale chiamato a eleggere il presidente della repubblica, della composizione e del ruolo della assemblea nazionale prevista nella costituzione.

Con la costituzione vigente il capo dello Stato viene eletto, in seduta congiunta da tutti i deputati, da tutti i senatori (compresi quelli di nomina presidenziale o a vita), da un certo numero di rappresentanti regionali. Nell’ordinamento nuovo, laddove dovessero prendere forma un senato delle autonomie non eletto dal popolo ma dai consiglieri regionali o dai sindaci, la quota fin qui assegnata al senato fotocopia della camera e alle rappresentanze delle regioni dovrebbero venire meno. Meglio, andrebbero radicalmente riviste: nel numero, nelle loro specificità di rappresentanza, nel concorso a costituire (o no) il corpo dei grandi elettori chiamati ad eleggere il capo dello Stato. Non escludendo la cancellazione o la riduzione dei senatori a vita, il cui numero, specie dopo l’eliminazione del senato tradizionale, verrebbe ad alterare in qualche modo gli equilibri che determinano non solo la vita delle presidenze, ma quelle della maggioranza di governo.

Pongo il problema a freddo proprio per evitare scontri e studiare preventivamente soluzioni condivise al massimo. Il problema c’è. In clima di pacificazione nazionale e di agibilità politica in cui la maggioranza legittima la minoranza, e viceversa, se si ha sincera volontà costituente, non dovrebbe essere complicato favorire soluzioni logiche e articolazioni dei poteri equilibrate e coerenti. Riflettendo all’interno di una valutazione complessiva delle riforme finalmente sottoposte al vaglio di partiti e istituzioni, forse sarà possibile trovare soluzione anche a questo tema delicato della formazione del corpo elettorale presidenziale. Che non è questione minimale per una democrazia ordinata: specie se sarà rispettato un parlamentarismo sano e davvero equilibrato.



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