Parliamo della decisione della Corte costituzionale tedesca di rimettere la questione del, più o meno fantomatico, “programma di acquisto di titoli del debito pubblico dei Paesi aderenti all’UEM” (c.d. Outright Monetary Transaction), alla Corte di giustizia dell’Unione Europea.
Non conosciamo i dettagli della decisione della Corte, ma in base al comunicato da essa reso ai media, che dobbiamo supporre aver attentamente soppesato le parole, possiamo trarre alcune interessantissime informazioni.
Allora, questo sunto essenziale ci dice che:
“La Corte di Karlsruhe ha detto di voler consultare la Corte europea perché dispone di “importanti ragioni” per credere che il programma di acquisto di titoli di stato (Omt) abbia “travalicato il mandato della Banca Centrale Europea”. Ma considera anche possibile che se il piano Omt “fosse interpretato in modo restrittivo” potrebbe essere conforme alla legge.
La Corte costituzionale tedesca si pronuncerà in modo definitivo sul Meccanismo di stabilità europeo il prossimo 18 marzo. La Banca centrale europea, intanto, “prende atto dell’annuncio della Corte costituzionale tedesca” ma “ribadisce che il programma Omt ricade nell’ambito del suo mandato”. Questa la reazione dell’istituzione monetaria alla decisione della consulta teutonica. Il collegio, che ha sede a Karlsruhe, ha deciso di deferire il sistema anti spread della Bce alla Corte di giustizia europea, per ottenere un parere prima di assumere la sua decisione, attesa il 18 marzo prossimo“.
I passaggi clamorosi sono i seguenti:
A) La Corte tedesca, per la prima volta “nella sua storia”, si considera, rispetto alla Corte europea, come (mero) “giudice nazionale”. Come già, con un’apertura recentissima, aveva fatto la Corte costituzionale italiana in sede di giudizio incidentale sulla legittimità delle leggi (ordinanza 18 luglio 2013, n.207, nel delicato tema della legittimità del precariato nella Scuola). La Corte tedesca adisce la via interpretativa europea, ma lo fa “a metà”;
B) infatti, a differenza di quanto ha finito per affermare la nostra Corte, quella tedesca non dice apertamente che il sindacato, in via principale ed esclusiva, sulla rispondenza ai trattati di un atto di una istituzione “europea”, cioè la BCE, spetti alla competenza della stessa CGUE, ai sensi degli artt.19 TUE e 263, 264 e 267 TFUE (profilo che, avete visto, la stessa GGUE ha prontamente ribadito nella sua immediata risposta);
C) infatti lo Stato tedesco, invece di servirsi del ricorso diretto alla Corte di giustizia europea ai sensi del citato art.263 TFUE, aveva senza esitazione preferito rimettere (col ricorso interno “diretto” previsto dalla propria Costituzione) la questione OMT alla propria Corte costituzionale.
Ma non basta: questa, a sua volta, in una sorta di anomalo “rito tedesco”, del tutto coerente con quanto preannunziato in tutta la sua storia giurisprudenziale di rivendicazione della priorità del sindacato costituzionale “interno” sulla giurisdizione affidata alla CGUE, non si serve, in modo conforme ai trattati, neppure della rimessione “incidentale” alla CGUE quale prevista dall’art.267 TFUE;
D) dunque, clamorosamente, e molto significativamente, rimessa la questione alla giustizia europea, la Corte di Karlsruhe:
d1.) non sospende il giudizio in attesa di quello emanato dalla CGUE, ma anzi fissa “a prescindere” una data per il proprio pronunciamento definitivo (il 18 marzo), evidentemente assumibile indipendentemente da quanto potrà dire la CGUE, con ciò stabilendo in sostanza un termine c.d. perentorio per la decisione interpretativa della stessa, il che equivale a “ordinargli di decidere” entro il termine stesso, assumendo una superiorità gerarchica nell’ambito dei rispettivi – e pretesamente autonomi- oggetti di giudizio;
d.2.) fissa immediatamente le condizioni alle quali, bontà sua, la CGUE potrà pronunziarsi in modo da rendere accettabile dalla Germania il suddetto OMT: in particolare, ove questo fosse “interpretato in modo restrittivo“, cioè alle condizioni prefissate dalla stessa Germania in persona della sua Corte costituzionale, che, in sostanza, predetermina i termini della legittimità cui deve assoggettarsi la CGUE per non vedere dichiarata, in qualche modo, la inefficacia per contrarietà alle sue norme costituzionali, dello stesso OMT;
d.3.) queste condizioni sono riassumibili nella delimitazione del programma di acquisti a obiettivi limiti quantitativi e di tempo, cioè esattamente il contrario di quello che è il fulcro indispensabile della efficacia che possono dispiegare sui mercati questo tipo di interventi “ventilati” (whatever it takes…and believe me, it’ll be enough, disse imprudentemente Draghi), come universalmente evidenziato da tutta la dottrina economica più autorevole.
Già con riguardo al programma di acquisti prima EFSF e poi ESM, infatti, queste stesse identiche obiezioni, relative alla pressocché totale inutilità di un’acquistabilità delimitata e selettiva dei titoli “sovrani”, in pratica incapace di risolvere i problemi di spread (e di squilibrio debitorio costantemente riproducibile), anzi a tal fine dannosa, avrebbero dovuto essere ben chiare: l’ESM, in pratica è divenuto tristemente famoso, ormai, per aver imposto finora una contribuzione complessiva, a vario titolo, di 50 miliardi all’Italia, versati e sottratti al nostro bilancio, finendo per incrementare il debito su PIL, (i vari tipi di versamento e “garanzie”, dovrebbero arrivare a complessivi125,37), e così creando dei fondi pubblici immobilizzati al passivo di cui l’Italia, per i suoi titoli pubblici, neppure potrà in alcun modo fruire, per via del suo rating (ma i bund tedeschi tedeschi, sì)!
L’argomentazione scientifica di tali voci diffusamente e concordemente accreditate, la Corte, Bundesbank e il governo tedesco, la conoscono benissimo.
Va dunque notato che mentre la Corte costituzionale italiana si “assoggetta” unilateralmente alla pronunzia giurisdizionale interpretativa “Europea”, – enunziando esplicitamente il principio per cui “la questione pregiudiziale posta alla Corte di giustizia è rilevante nel giudizio di legittimità costituzionale, poiché l’interpretazione richiesta a detta Corte appare necessaria a definire l’esatto significato della normativa comunitaria al fine del successivo giudizio di legittimità che questa Corte dovrà compiere rispetto al parametro costituzionale integrato dalla suddetta normativa comunitaria“, e definendo così un rapporto di classica pregiudizialità della pronuncia CGUE-, la Corte tedesca emana sostanzialmente un “ultimatum“.
La questione è già decisa.
La rilevanza della pronuncia pregiudiziale europea non può influire sull’esito pratico e finale di tale decisione, se non aderendo alle condizioni unilateralmente preindicate dai tedeschi: l’OMT immaginato (a parole) da Draghi è accettabile e avrà vita solo in quanto interpretato come dicono loro e per la loro diretta convenienza nazionale.
Sono tutti avvertiti: se così non sarà fatto, la Germania non si riterrà vincolata.
Come nel caso ESM, la costituzione di fondi a carico dei vari Stati UEM – e non certo della sola Germania che, di fatto, finora ne beneficia a titolo praticamente esclusivo-, non può e non deve servire ad attenuare, (perché questo al massimo può fare), gli squilibri finanziari determinati dalle asimmetrie delle rispettive posizioni nette sull’estero, divaricatesi specialmente nei reciproci rapporti commerciali intra-UEM.
Al più, in estrema applicazione della “condizionalità” – peraltro riaffermata anche da Draghi nel lanciare l’OMT, cioè sempre della imposizione di “riforme strutturali” deflattive del lavoro si parlava– questa eventuale forma di acquisti delimitati, imposta dall’ultimatum così lanciato, finirà per essere utile solo a chi, indipendentemente dall’OMT (in piena petizione di principio), acquisisse una posizione di surplus delle partite correnti stabile e rilevante, – perché è da ciò che dipendono gli spread – condizione che renderebbe ulteriormente priva di senso la stessa OMT; ed infatti, nel frattempo, come appunto già nel caso dell’ESM, al più saranno in pratica consentibili solo acquisti di…bund tedeschi!
Da quanto precede, possono ritrarsi alcune osservazioni e conclusioni.
Innanzitutto, in punto di diritto, la Germania, sia nel suo ricorso “interno” che nella posizione assunta dalla sua Corte, ha essenzialmente ragione.
Ed infatti, in base agli artt.123 e 124 del TFUE, non solo è vietato l’acquisto “diretto” di titoli del debito pubblico degli Stati da parte della BCE (art.123), – profilo aggirabile sviluppando l’OMT, seppure con minore efficacia, sul mercato c.d. “secondario” (trading successivo al collocamento alle aste), ma è altresì vietata “qualsiasi misura non basata su considerazioni prudenziali che offra“, tra gli altri, agli stessi Stati, “un accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie” (art.124).
In aggiunta, e a coronamento, l’art.125 TFUE, stabilisce che l’Unione Europea, ovviamente inclusa la BCE, “non risponde degi impegni assunti…dalle amministrazioni statali…di qualsiasi Stato membro“.
E’ chiaro che da un quadro normativo come questo, non si sfugge: acquisti illimitati nella quantità e nel tempo quali (teoricamente) ritenuti necessari, in modo non determinabile a priori, da parte della BCE, sarebbero abbastanza pacificamente contrari a questo insieme di norme del Trattato, perché si risolvono sia in una misura che offre condizioni di accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie europee – di cui certamente la principale è la BCE; inoltre, la intrinseca potenziale indeterminatezza dei limiti di aquisto, necessariamente lasciata al prudente apprezzamento della BCE, implica l’assunzione di una implicita garanzia, sostenuta nel tempo e potenzialmente illimitata, da parte della BCE per gli “impegni” assunti, mediante l’emissione del debito, dalle amministrazioni dei singoli Stati.
Se la Germania ha ragione, è clamorosamente comprovata, da questa occasione, l’erroneità della “teoria filo-europeista” che la moneta unica, e lo stesso Trattato in quanto considerato inscindibile dalla “unione economica e monetaria la cui moneta è l’euro” (art,3, par.4, TUE), in ogni loro constatabile riflesso, rientrino nell’ambito del diritto pattizio “solidaristico”; cioè fra quei trattati volti alla cooperazione, anche solo meramente economica, tra gli Stati che vi aderiscono, gli unici consentiti all’Italia dall’art.11 Cost.
La mitica “solidarietà” che risponde al presunto spirito “perduto” della costruzione europea, non ha e non ha mai avuto un punto di riferimento cui “ritornare”: e questo semplicemente perché il Trattato (fin da Maastricht) è stato espressamente congegnato non per fondarsi, magari per implicito principio attinente alla sua “causa fondamentale” (cioè al suo oggetto e al suo scopo, intensi secondo buona fede, art.31 Conv. di Vienna), su una qualche forma di solidarietà finanziaria e fiscale, ma, al contrario, sulla sua espressa esclusione.
Cioè questa esclusione originaria, evidentemente a suo tempo oggetto di un’attenta negoziazione condotta dagli stessi tedeschi, e da noi, si dovrebbe supporre consapevolmente accettata, segnala il trattato per il suo peculiare, esplicito e intenzionale contenuto di contrarietà alla finalità di promozione della “pace e della giustizia fra le Nazioni” nel quadro dell’art.11 della Costituzione.
Questo dato è agevole da ricavare dalle premesse sin qui svolte, ma solo se si usa il metro della “buona fede” interpretativa, cioè della correttezza logica dell’individuazione del senso puntuale e sistematico delle norme alla luce del loro oggetto e scopo, come, abbiamo visto, prescrive la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.
E tutto ciò dato che, quantomeno – e senza trascurare la ulteriore disparità giuridico-economica di partenza dell’imporre a paesi con diversi livelli di debito e di onere degli interessi pubblici, un unico tetto di indebitamento pubblico– si intende inderogabilmente assoggettare il debito pubblico al prezzo fissato sui mercati, esclusivamente secondo il libero gioco della domanda-offerta, mentre il “mercato” dei cambi viene sottratto a tale determinazione della domanda e dell’offerta e sottoposto all’assoluta rigidità del cambio fisso, fra paesi aventi strutture economiche e naturali livelli di inflazione divergenti (e non in sè autonomamente patologici).
In tal modo, del tutto irrazionale e contrario ai principi più elementari di qualunque area valutaria c.d. “ottimale”, il cambio di tutta l’area UEM, e per ciascun singolo Stato aderente, deve essere sostenuto senza la rete della manovra monetaria della Banca centrale che assista gli Stati che adottano la moneta unica (cioè il cambio fisso che implica necessariamente la permanente incidenza dei differenziali di inflazione, registrata nei sempre rilevanti accumuli differenziali dei tassi di cambio reale).
Quindi, le norme del Trattato, una volta prodottisi gli effetti inevitabili e prevedibili di questo tipo di unione monetaria che esclude esplicitamente meccanismi di correzione, implicano che gli Stati sono impediti a ricorrere a clausole di solidarietà e di residua politica monetaria, persino centralizzata, cioè gestita in modo suppletivo da una banca centrale estranea alle esigenze di ciascun singolo paese, in (pallida) manovra anticiclica. Con ciò escludendosi la fantomatica natura attinente all’internazionalismo della pace e della giustizia che, solo, consentirebbe l’adesione a tale trattato in base all’art.11 Cost.
In tal modo, le condizioni, prima di tutto logiche, di parità delle Nazioni partecipanti sono espressamente e programmaticamente impedite, dato che il cambio è fisso e la manovra monetaria non è consentita, mentre invece, non esiste alcuna considerazione pattizia (cioè previamente concordata) delle conseguenze delle, anche più lievi, divergenze dei tassi di inflazione accumulatisi inevitabilmente, e cioè fisiologicamente, nel tempo.
Cioè la Germania ha ragione, ma anche sotto questo aspetto (cioè politiche monetarie della Banca centrale) non si persegue la pace e la giustizia tra le Nazioni aderenti in condizioni di parità; e in aggiunta quando già il tetto “unico” del deficit segnalava un ulteriore eclatante aspetto di questa carenza di condizioni di parità tra le Nazioni stesse.
E quindi, se la Germania ha ragione, hanno torto i sostenitori italiani della costruzione europea solidaristica e cooperativa, che rimane non solo un frutto della loro immaginazione (e propaganda mediatica), ma anche una grave negligenza sia nella negoziazione che nella adesione e, infine, nell’adempimento dell’obbligo costituzionale di interpretazione e corretta esecuzione dei trattati solo in conformità alle condizioni cui li sottopone, per tutta la loro durata, l’art.11 della Costituzione.
Attenzione: il destino dell’OMT è già irrevocabilmente segnato.
O la Corte europea “si piega” all’ultimatum tedesco e ne vanifica, come si è visto, l’efficacia fondamentale (ripiombando da domani l’euro nelle potenziali divergenze connesse agli squilibri commerciali fisiologici ma normativamente non correggibili per i paesi vincolati all’UEM), ovvero la Germania, avvalendosi della “dottrina Lissabon Urteil” (le cui linee fondamentali sono illustrate in “Euro e (o?) democrazia costituzionale”, parte 3, capitolo 1, pagg.211 ss.) sottrae il suo decisivo apporto partecipativo.
In virtù di tale decisione della stessa Corte tedesca, va rammentato:
“…che la stessa legittimazione del processo integrativo dipende dai parlamenti nazionali e dal loro rigoroso apprezzamento della “struttura interna” della Costituzione sempre nazionale. Si tratta, in sostanza, di una chiara riaffermazione, ex parte tedesca, della propria sovranità nazionale: col paradosso, che la Germania utilizza la propria influenza dominante sulle istituzioni UEM per negare quella stessa legittimazione costituzionale alla sovranità agli altri paesi membri.
Le enunciazioni della Corte Costituzionale tedesca sul loro ruolo nella “struttura costituzionale” nazionale, vanno intese insieme al tentativo di specificare cosa si intenda per “identità nazionale”, un parametro che ritroviamo nell’art. 4.2 del Trattato sull’Unione europea, posto in termini non solo di “rispetto della…eguaglianza” tra Stati aderenti, ma anche della loro ”identità nazionale, insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale”. Un precetto fondamentale racchiuso nel Trattato stesso che consente un’ampia serie di riserve, allorché entri in gioco l’insieme di valori che caratterizzano la comunità di uno Stato aderente, specie in rapporto alla intensità con cui, dalla sede “europea”, si interviene su aspetti costitutivi della stessa sovranità statale come quelli monetario e fiscale. Ma una clausola che in Italia pare del tutto dimenticata nel suo potenziale di attivazione dei limiti costituzionali di fronte all’irrompere dei vincoli “europei”. Al contrario, in Germania, con le pronunce del Bundesverfassungsgericht, si è colta nella sua pienezza la necessità di proteggere quella “identità nazionale” insita nella propria struttura fondamentale, politica, economica e, soprattutto, costituzionale.”
Dunque quand’anche la Corte europea intraprendesse una impervia lettura dei Trattati, contraria alla loro lettera e sistematica più evidenti, la Germania, sindacando, attraverso la propria Corte, la costituzionalità della “legge di estensione”, si sottrarrebbe comunque all’applicazione della OMT, avendo stabilito e riaffermato un diritto “a posteriori” di apporre esenzioni equivalenti a riserve unilaterali, che sottomettono i trattati al proprio prevalente interesse nazionale.
La cosa paradossale, è che in Italia contestare l’euro, richiamando l’evidenza di una tale applicazione “non paritaria”, sia sotto il profilo della esplicita formulazione dei Trattati, nei plurimi aspetti sopra evidenziati, sia sotto il profilo, ulteriore, dell’applicazione “spregiudicata” (sicuramente non cooperativa) dei Trattati stessi, assunta dalla Germania in nome dell’interesse nazionale, viene visto come un rigurgito di xenofobia nazionalista al solo nominare l’interesse nazionale!
E questo, quando, al contrario, sia l’art.11 Cost., sia lo spunto (anch’esso totalmente dimenticato) dell’art.4, par.2, del TUE (quello che costituirebbe un principio fondamentale che l’Unione si obbliga ad applicare, cioè la uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati, rispettando “la loro struttura fondamentale politica e costituzionale“) condurrebbero a un preciso dovere istituzionale di ristabilimento della “reciprocità“: cioè a fare applicazione “dovuta” di un’altra condizione immanente ed inderogabile del diritto internazionale, in virtù della quale gli organi interni abilitati non dovrebbero protrarre una condizione di applicazione “ineguale” di qualunque trattato e porvi fine.
E questo ricorrendo sia agli strumenti della simmetrica dichiarazione di illegittimità costituzionale del vincolo, sia a quelli, coordinati coi primi, della denuncia dei Trattati stessi secondo le disposizioni relative alla clausola rebus sic stantibus, qualora, come nel caso, si manifesti la insostenibilità del vincolo pattizio alla luce del venir meno del suo (solo in astratto proclamato) oggetto e scopo paritario e cooperativo; tanto più quanto tali oggetto e scopo costituiscono le precondizioni essenziali e determinanti della negoziazione e della vincolatività alla stregua dello stesso principio fondamentale della Costituzione sancito dal predetto art.11.