Motus in fine velocior. Ora che la guida del governo passerà a Matteo Renzi, le sue parole d’ordine non sono affatto cambiate: scelte radicali e velocità, per uscire dal pantano. E sarà innegabile la tentazione di ricominciare a decretare d’urgenza, già nel giro della prima settimana, con provvedimenti catenaccio, come hanno fatto Berlusconi nel 2008, Monti nel 2011 e Letta l’anno scorso: chi si inorgogliva per aver messo i conti pubblici in sicurezza, chi per averci evitato il baratro, e chi per consentirci finalmente di “fare” con “destinazione Italia”.
DA LETTA A RENZI
D’altra parte, se il passaggio di mano tra Enrico Letta e Matteo Renzi ha assunto toni concitati e ritmi convulsi, in un crescendo continuo a partire dalle riunioni in casa PD per decidere se e quando convocare le primarie per eleggere il nuovo Segretario, lo si deve alla constatazione del fallimento politico del governo Letta. Il quadro delle alleanze in cui doveva agire e gli obiettivi che doveva raggiungere sono evaporati: era nato con obiettivi limitati, da realizzare in tempi rapidissimi, ed un orizzonte a 18 mesi per verificarne il raggiungimento, in un contesto di larghe intese.
PERSEGUIRE LA GOVERNABILITA’ DEMOCRATICA
Occorreva superare in modo organico i difetti ormai evidenti ed incontestabili della Seconda Repubblica: il pur conseguito bipolarismo politico, nonostante il cospicuo premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente, si era dimostrato insufficiente rispetto all’obiettivo di assicurare congiuntamente stabilità al Governo e rappresentatività al Parlamento. Ed era stato addirittura il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il 30 marzo 2013, neppure un anno fa, a costituire un Gruppo di lavoro per le Riforme istituzionali, composto da Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante, che presentò il 12 aprile, neppure due settimane più tardi la Relazione finale. Nuova legge elettorale, modifica delle competenze del Senato, riforma del Titolo V, erano le tre facce dello stesso problema: perseguire la governabilità democratica.
PRIMI E ULTIMI PASSI DEL GOVERNO LETTA
Il governo Letta era partito a spron battuto: per modificare la Costituzione si era immaginata una Commissione di saggi che definisse il testo che poi il Parlamento avrebbe potuto solo approvare o respingere in blocco: una procedura straordinaria, derogatoria rispetto a quella vigente. Anche sulla eliminazione dell’IMU sulla prima casa, un impegno formale in tal senso, pur condizionato, era stato addirittura nello stesso discorso di presentazione alle Camere. Un giorno dopo l’altro, il Governo ha perso la sua carica propulsiva: le riforme non si sono fatte e le larghe intese sono venute meno.
GLI OSTACOLI PER RENZI
E’ quindi scontato che anche il futuro governo Renzi si troverà, almeno all’inizio, nello stesso contesto politico ed istituzionale di ingovernabilità di cui si sono lamentati pressoché tutti. Per superarla è necessario riuscire a mantenere un contatto continuo e costante con i cittadini, rivolgendosi a tutti e non ad una sola parte: il nesso della comunicazione, del consenso quanto più ampio e genuino possibile, sarà la chiave di volta della sua azione. Le esperienze di Berlusconi e di Grillo lo testimoniano. Con il tweet Matteo Renzi ci sa fare, ma il consenso non basta: prima serve una nuova strategia di Governo.
RIBALTARE LA POLITICA DI BILANCIO
In primo luogo, la politica di bilancio va completamente ribaltata: occorre mettere sotto controllo i flussi e non i saldi. Se vogliamo essere davvero radicali, se non rivoluzionari, dobbiamo riconoscere che l’errore principale compiuto dal ’93 in avanti è stato rappresentato dall’ossessione per i saldi di bilancio, disinteressandosi completamente dei flussi di entrata e di spesa. Il mantra di tutti i Ministri del Tesoro che si sono fin qui susseguiti è la causa del dissesto: il Parlamento può fare ciò che crede, purché rispetti i saldi: e, difatti, a saldi invariati la pressione fiscale e la spesa pubblica sono lievitati di continuo, in una folle rincorsa. Gli interessi dei destinatari della spesa pubblica sono strenuamente rappresentati e riescono ad evitare i tagli, mentre le tasche dei cittadini rimangono indifese: anche il Governo Monti, dovendo arrivare rapidamente al pareggio strutturale, ha chiuso il gap aumentando le tasse in modo forsennato.
QUALE STRATEGIA
Occorre riconsiderare i rapporti tra bilancio pubblico ed economia: è sbagliata una strategia di politica economica che, in periodo di crisi prolungata, sottovaluta sistematicamente le retroazioni tra decisioni fiscali ed economia reale. Dopo il FMI, lo ha riconosciuto anche l’Ocse: a sottostima degli effetti depressivi delle manovre porta ad un avvitamento delle correzioni. Basta vedere il gettito dell’Iva che cala nonostante l’aliquota ordinaria dell’Iva sia stata aumentata di due punti percentuali. Va fatta quindi chiarezza anche sulle previsioni pluriennali del bilancio pubblico: è dal 1978 che la legge di contabilità le prevede, ma si rivelano sempre sbagliate, perchè le entrate sono sovrastimate e le spese sottostimate. Il risanamento è sempre teoricamente acquisito al termine del periodo triennale, ma si sposta di anno in anno. Basta vedere i Def e gli aggiornamenti annuali, per constatarlo: questo inutile ottimismo rappresenta un ostacolo enorme al rilancio dell’economia. Se fosse chiaro che il gettito fiscale calerà, nonostante l’aumento delle imposte sulla compravendita degli immobili o dei veicoli, una riduzione delle aliquote sarebbe considerata accettabile. Ed invece, la proposta viene dichiarata inammissibile: serve trovare la copertura finanziaria per evitare di perdere un gettito fiscale che in realtà non ci sarà mai.
ACCUMULO DEI POTERI
Il secondo aspetto è organizzativo: l’accumulo di poteri conferiti nel corso degli anni ad ogni singolo burocrate pubblico rende praticamente impossibile il contenimento della spesa. Non esiste apparato al mondo in cui un dirigente abbia i poteri cumulati dai nostri funzionari pubblici: poteri di firma amministrativa, di impegno di spesa e di gestione delle risorse umane. Nessun Mister Forbici potrà riuscire ad aprire una monade che di per sé stabilisce e misura che cosa si può fare e quanti soldi servono per raggiungere un obiettivo pubblico: continua ad accumulare numeri, costi storici e standard, moltiplicando le inutili complessità senza risultati apprezzabili. Mentre nelle aziende private servono montagne di firme e di controlli per impegnare una spesa, mentre i budget ed i risultati sono contrattati duramente, nelle amministrazioni pubbliche valgono regole astratte ed astruse: capitoli più o meno asteriscati, di spese obbligatorie o di parte capitale. Essendo poi una gran parte delle attività esternalizzata, la pressione delle ditte beneficiarie delle spese pubbliche si cumula al desiderio del pubblico funzionario di vedersi accrescere budget e potere: una coalizione irresistibile.
Tutto deriva dal fatto che ormai da venti anni la politica si è ritirata dalla guida dell’Amministrazione: per evitare guai giudiziari non firmano più nulla. Ai sindaci sono stati mantenuti ed estesi i poteri di ordinanza: fanno i fusibili nelle situazioni a rischio. Abbiamo il paradosso, in questi giorni, di un Vice ministro che si è lamentato di essere ancora senza deleghe dopo otto mesi dal giuramento: i burocrati saranno pure nominati fiduciariamente, ma fanno ciò che vogliono. Finchè i ministri ed i sottosegretari non ricominceranno a mettere loro le firme sugli atti amministrativi e di spesa, non avranno nessun potere vero di controllo e di direzione sulle amministrazioni.
COME FAR PARTIRE L’ECONOMIA
Arriviamo al punto cruciale: come fare a far ripartire l’economia. La questione del cuneo fiscale è seria: Confindustria aveva chiesto uno sgravio di 10 miliardi. Escluse nuove tasse sui redditi e sul lavoro, la tentazione ricorrente è la spoliazione dei patrimoni e dei diritti. Ora va di moda confiscare le pensioni cosiddette d’oro, senza tener conto che sono le uniche che hanno alle spalle contributi veri e lunghi anni di lavoro. Dietro le pensioni minime ed inegrate al minimo ci sono invece le intere generazioni di baby pensionati e di evasori contributivi: chi è andato via con 13 o 19 anni di anzianità e chi a segnarsi all’INPS non ci ha mai neppure pensato.
Per far ripartire l’economia di soldi ne servono assai di più, ma serve anche un patto nuovo con le imprese. Quelle piccole e medie che hanno chiuso non riapriranno mai più, così come non ha futuro gran parte del popolo formato dai 4 milioni di partite Iva e dalle società con 1 euro di capitale. Il dato saliente del 2013 è la riduzione del credito bancario al settore privato dell’economia (-72,8 miliardi), la riduzione dei depositi (-31 miliardi), la contrazione della raccolta dall’estero (-51,3 miliardi). In totale, nel 2013 la differenza tra i depositi dei privati residenti ed il credito erogato loro è stata di 143 miliardi: sono serviti a finanziare il debito pubblico. Lo spiazzamento del credito è evidente, così come ormai sta finalmente emergendo la consapevolezza che le sofferenze bancarie non possono essere considerate un accidente casuale. Abbattere il debito pubblico è il nodo cruciale: è enorme, una spada di Damocle pende sulle nostre teste, che costa all’economia reale 80 miliardi di interessi l’anno.
Serve un quadro di soluzioni organiche, senza inutili cacciaviti e pericolose mannaie. Matteo Renzi sarà presto all’opera, e lo attendono gravi responsabilità. C’è da sperare che abbia mantenuto vivo in questi anni il motto degli scout: Estote parati