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Ecco come nasce il miracolo economico della Polonia

Erano giovani uomini alti, di carnagione chiara che con un secchio d’acqua e una spatola di gomma chiedevano, a cenni, di pulire i vetri delle auto agli italiani che correvano come pazzi per non perdersi una briciola del mini-boom dell’Italia “da bere” pre-tangentopoli. Erano polacchi, scappati dal colpo di stato militare del generale Jaruzelski, coi suoi occhiali fumè, imposto dai “fratelli” sovietici. Il regista Peter Dal Monte, qualche anno dopo, realizzò un film, “La ballata del lavavetri”, che ebbe scarsa fortuna nelle sale. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti.
Oggi la Polonia è tra i 30 paesi più innovativi al mondo, secondo il rating pubblicato dall’agenzia Bloomberg. La Polonia ha ottenuto il miglior risultato, collocandosi al 13° posto, nella categoria high-tech density.

Secondo la Banca Mondiale il pil polacco crescerà del 2,8% nel 2014 e raggiungerà il 4% nel 2016. Se raffrontiamo questi dati a quelli italiani, ci sarebbe solo da mettersi a piangere e non fermarsi più. Eppure nel provincialissimo immaginario collettivo italiano, i polacchi sono rimasti, più o meno, i lavavetri degli anni ’80. In realtà la presenza dei polacchi in Italia e a Roma, in particolare, dove risiedono oltre un quinto degli oltre 100.000 presenti nella nostra Penisola, ha radici molto lontane che partono dal Medioevo, passando dall’Illuminismo, periodo in cui molti studiosi come Niccolò Copernico solevano frequentare gli ambienti universitari italiani.

Un rapporto, per così dire, privilegiato si è instaurato nel corso dei secoli con la città di Roma: la partecipazione degli intellettuali polacchi alla creazione della Repubblica Romana del 1797 con l’ingresso della Legione Polacca, guidata dal generale Dabrowski, a presidio e difesa dei moti rivoluzionari in sostituzione delle truppe francesi, fino alla seconda guerra mondiale con la battaglia di Montecassino per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Basta farsi un giro al cimitero polacco dietro l’Abbazia per vedere le migliaia di lapidi di giovani polacchi morti per la libertà e la democrazia. La giovane democrazia polacca, nata nel 1989 con le prime elezioni libere, sei mesi prima del crollo del muro di Berlino, che elesse l’eroe di Danzica, Lech Walesa, primo presidente della neonata Repubblica parlamentare, ha avuto fin dall’inizio le idee molto chiare.
Innanzitutto una costante e fedele politica di liberalizzazione dell’economia, smantellando con coraggio tutte le incrostazioni strutturali, politiche e civili della dittatura comunista. La privatizzazione di piccole e medie imprese di proprietà dello Stato e l’affidamento ai privati di ampi settori dell’economia reale quali carbone, acciaio, energia.

Ma, l’impegno maggiore è stato rivolto verso la formazione delle nuove generazioni. La cultura e l’istruzione sono diventati i pilastri del nuovo corso deciso dal popolo polacco. Insieme alla Chiesa e alla religione cattolica che è parte integrante dell’identità nazionale (rafforzata nel 1978 dalla carica papale del polacco Karol Wojtyla e il ruolo fondamentale da Egli svolto per la dissoluzione del comunismo), la pubblica istruzione (tra le nuove materie obbligatorie introdotte per eliminare definitivamente le scorie del comunismo, figura “l’educazione all’impresa”) e il recupero dell’identità culturale polacca. Su queste basi nella seconda metà degli anni ‘90, il ministero polacco dell’Istruzione, rivolta come un calzino la rete di Scuole Polacche, creata negli anni ’60 dai comunisti, in una sessantina di Paesi esteri che vantano una presenza significativa di cittadini polacchi.

In origine queste “scuole” avevano tutt’altra funzione. In pratica in tutte le ambasciate polacche nel mondo, per i figli dei funzionari, degli ambasciatori, degli attachè culturali e anche dei militari e specialisti dell’intelligence, si formavano delle classi scolastiche in cui veniva riproposto pedissequamente l’insegnamento obbligatorio in patria. Lo scopo era quello di non far entrare in contatto i figli del personale diplomatico con altre realtà politiche e culturali, in special modo in occidente, e continuare a “formare” i ragazzi secondo i canoni storici e culturali imposti dal regime sotto il ferreo controllo dei sovietici. Quando questi tornavano in patria erano assolutamente allineati ai loro coetanei rimasti nei confini di stato. La prima scuola polacca di “regime” a Roma venne fondata nel 1973.
Il crollo del regime alla fine degli anni ’80, provoca un sommovimento profondo nell’organizzazione dello stato e nell’economia. Il popolo polacco massacrato dalla disoccupazione e dall’impatto con le regole di mercato capitalistiche, non vede altra strada che l’emigrazione. Milioni di polacchi fuggono verso l’occidente europeo e americano in cerca di una vita migliore per se e le loro famiglie.

Molti come abbiamo detto giungono in Italia, ma solo come “base di transito” verso altri Paesi. Altri si fermano, trovano da lavorare, mettono su famiglia. Si sposano con italiani e italiane, i figli vanno nelle scuole italiane e piano piano il legame con la terra d’origine diventa sempre più blando. Oggi la Repubblica polacca conta 38 milioni di abitanti, fuori dai confini e sparsi ai quattro angoli del globo, ve ne sono oltre 22 milioni. Una curiosità: i polacchi della “diaspora” sono definiti “Polonia” dai cittadini residenti nella Repubblica che, invece, si chiamano “polacy”. “All’inizio degli anni ’90 – dice la direttrice della scuola polacca di Roma, Danuta Stryjak – i programmi scolastici messi a punto dal ministero dell’Istruzione, erano preparati con l’intendimento di dare ai ragazzi, figli della “diaspora”, una formazione uguale a quelli in patria. Si era convinti che prima o poi i ragazzi sarebbero tornati a casa e avrebbero avuto una preparazione conforme a quelli che erano rimasti. Ci siamo accorti dopo un po’ che questi ragazzi, in realtà, non sarebbero più tornati a vivere stabilmente in Polonia. Lo Stato a questo punto ha dovuto modificare i programmi”. La Scuola Polacca di Roma, così come le altre nel mondo, non dipende dal ministero degli Esteri, bensì da quello dell’Istruzione. Gli insegnanti vengono scelti con criteri oggettivi (quasi tutti hanno una doppia laurea in materie umanistiche o letterarie) e i rapporti con l’Ambasciata e l’Istituto di cultura polacca sono strettissimi, così come con tutta la comunità che vive a Roma e in Italia.

Sfruttando al meglio i finanziamenti europei, lo Stato polacco presenta un progetto, accettato dall’Europa, per l’insegnamento della lingua, storia, geografia, educazione civica, per consentire ai polacchi residenti all’estero di mantenere un “legame” culturale e sociale con la patria d’origine. “Esperti del ministero hanno così predisposto – continua la direttrice – programmi ad hoc per fare in modo che i polacchi che vivono in altri paesi possono continuare a parlare la loro lingua, conoscere la propria storia, letteratura, arte. Per molti polacchi in Italia, la lingua madre è ormai l’italiano. Quella polacca è la “seconda”, così viene definita nella didattica, non straniera. La nostra scuola non è obbligatoria, anche se l’insegnamento è riconosciuto dall’ordinamento polacco”. In altre parole, i figli delle coppie polacche o miste che vivono in Italia, la mattina vanno nelle scuole italiane e studiano, Dante, il Rinascimento, Garibaldi, ecc., nel pomeriggio vanno alla scuola polacca dove si insegna, in polacco, la storia, la geografia e la letteratura.

Insomma uno sforzo encomiabile per dei ragazzi (il ciclo scolastico va dalle elementari al liceo), che spesso si sobbarcano lunghi viaggi per frequentare per alcune ore alla settimana loro coetanei con cui parlano nella stessa lingua dei loro padri. “L’obiettivo dello Stato polacco – spiega Izabela Dziadosz, docente di storia, geografia ed educazione civica – è quello di mantenere vive le radici con la terra d’origine e, in qualche caso, la speranza di un ritorno in patria. La partecipazione dei genitori dei ragazzi, per la maggior parte gente che lavora sodo e fa tanti sacrifici è incredibile. La scuola è completamente gratuita, ma i familiari degli studenti si danno da fare per raccogliere su base volontaria, fondi da utilizzare per attrezzature scolastiche all’avanguardia, organizzare gite culturali, visite a luoghi storici, ecc. Insomma vogliono che i loro figli non perdano l’identità culturale da cui provengono”. Nel 2013 l’emigrazione dai Paesi europei, compresa la Polonia, in Italia è stata pari a zero.
Anzi, ci dicono i docenti polacchi, negli ultimi tempi stiamo assistendo ad un fenomeno inverso. E cioè, italiani che trovano possibilità di lavoro in Polonia e, prima di trasferirsi, chiedono con insistenza di organizzare corsi di lingua polacca per adulti. Il primo corso è già partito da oltre due anni.

Verrebbe da fare un paragone con quello che succede nelle scuole italiane all’estero o negli istituti di cultura italiani. Per carità di patria ce lo risparmiamo, una segnalazione che prendiamo dalla cronaca de “Il Fatto quotidiano”, di qualche giorno fa, però è d’obbligo. Ecco titolo e sommario: “Cultura, grazie ai politici c’è chi ci mangia. E lo scandalo italiano va in tutto il mondo. Dal ginecologo in predicato di partire per Los Angeles come allo specialista in tecniche di imballaggio in servizio come addetto scientifico in Canada. Il ministero degli esteri chiude 10 istituti italiani di cultura ma continua ad assegnare senza selezione pubblica ad amici e famigli dei politici incarichi da 15 mila euro al mese esentasse. Più della stessa dotazione assegnata agli istituti per promuovere attività culturali”.
È chiaro che quello che scrive “Il Fatto” non è una verità di fede e, infatti, sono partite querele e smentite a tutto spiano. Ma, come si dice, se l’arte è una metafora della realtà, a volte anche un titolo di giornale potrebbe avere la stessa funzione.


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